A distanza di quasi quattro anni dai primi arresti, il 31 ottobre scorso il Tribunale di Reggio Emilia ha emesso la sentenza di primo grado del processo c.d. “Aemilia”. Tra rito ordinario e abbreviato, le condanne sono state pesanti e numerose. Il maxi-processo emiliano ha messo nell’angolo un gruppo criminale di tipo mafioso che da anni imperversava nel Reggiano (e non solo). Si tratta di un gruppo di matrice calabrese – e più specificamente proveniente da Cutro – che ha messo piede in Emilia fin dagli anni Settanta del secolo scorso e che, a giudicare dalla sentenza, è riuscito a sopravvivere per oltre quarant’anni. Quattro decenni contraddistinti da profonde trasformazioni delle attività illegali e formalmente legali del gruppo, dei rapporti con la comunità di emigrati cutresi (presenti nel Reggiano fin dalla fine degli anni Cinquanta) e anche con gli abitanti “autoctoni”. Su tali rapporti il processo e la sentenza gettano meritoriamente luce.

In questi decenni, la ‘ndrina di Cutro in trasferta ha fatto registrare alti e bassi, dovuti alla ripetuta e persistente azione repressiva della magistratura e delle forze dell’ordine, nonché all’opera di auto-distruzione derivante dai cruenti scontri interni volti alla conquista della guida del gruppo.
I quarant’anni trascorsi rappresentano però un’era geologica anche per la società, la politica e l’economia reggiana. Di questo, se si vuole fare un’analisi accurata delle presenze mafiose sul territorio, bisogna tener conto: delle caratteristiche, degli elementi di forza e dei punti di vulnerabilità (esistono anche quelli) del gruppo criminale, insieme alle barriere che la società locale oppone e ai varchi che, al contrario, lascia aperti. È bene ricordare, infatti, che è sempre dall’interazione di questi due aspetti – le finalità e le risorse del gruppo criminale e le caratteristiche del contesto in cui intendono operare – che si realizza, in concreto, l’espansione territoriale delle mafie.

Insomma, nel Reggiano il gruppo non è nuovo ed Aemilia non è il primo colpo che le agenzie di contrasto gli assestano, visto che alcuni suoi esponenti sono stati indagati, processati e condannati lungo tutti gli anni Ottanta, Novanta e Duemila. Pur senza cedere a un facile pessimismo, quest’ultima considerazione indurrebbe a smorzare i toni trionfalistici dei commenti seguiti alla sentenza: il gruppo ha dato prova di essere coriaceo e bisognerà stare attenti che alla potatura di Aemilia non seguano nuove gemmazioni. Di ciò la magistratura e le forze dell’ordine sono consapevoli, così come le altre istituzioni e attori del territorio.

La vicenda Aemilia si presta bene a sviluppare due ulteriori considerazioni che mi paiono sostanzialmente assenti nella pur ampia discussione che ha accompagnato il processo e che è poi deflagrata in occasione della sentenza di primo grado. Mi riferisco, per continuare con la metafora arborea appena accennata, alle conseguenze che l’operazione ha avuto sia per gli altri rami illegali ma non mafiosi che crescono sul suolo reggiano, sia al tronco criminale calabrese di cui il gruppo criminale è espressione. Credo sia opportuno soffermarsi su questi due aspetti perché potrebbero risultare utili per sviluppare un’analisi meno stereotipata e semplicistica dell’espansione territoriale delle mafie, non solo nel Reggiano. Aemilia, dunque, come caso specifico di dinamiche che occhi attenti saprebbero rintracciare anche in altre vicende che hanno segnato le cronache giudiziarie degli ultimi dieci anni nelle regioni del Centro Nord.

Rispetto al primo punto, Aemilia ci fa intravedere come colpire le mafie significhi colpire anche altre forme di illegalità, preesistenti, “autoctone” e non mafiose che, forse, se non avessero incrociato le mafie, sarebbero sopravvissute ancora a lungo, provocando danni non inferiori a quelli generati dai mafiosi. Ciò avviene perché, a dispetto della retorica sulla forza e quasi invincibilità delle mafie, l’apparato normativo e operativo che lo Stato schiera contro le mafie è di eccezionale efficacia, proprio perché ad esso sono riservati strumenti molto più penetranti rispetto a quelli usati per contrastare le “ordinarie” illegalità. Mi riferisco alle Dda, alla Dia, ai gruppi speciali delle Forze dell’ordine, alle tecniche investigative, alle misure di prevenzione, alla legislazione carceraria, a quella sui testimoni e sui collaboratori di giustizia e a molto altro ancora. Perciò, ricorrendo ad una frase ad effetto, si potrebbe dire che “chi tocca le mafie muore”. Ma non a causa dei mafiosi – o meglio, a volte, non solo a causa loro – ma perché lo Stato piomba sulle forme di illegalità che si contaminano coi mafiosi con più solerzia, con più strumenti e con più forza. Con più efficacia e determinazione. Dunque, continuando con la metafora, i rami mafiosi sono più visibili (incendi, danneggiamenti, persone già sotto osservazione da parte delle procure meridionali ecc.) e richiamano di più l’attenzione degli investigatori che, una volta avvicinatisi all’albero, guardano bene anche gli altri rami (dello stesso albero o anche di alberi vicini, siano essi mafiosi o meno), scoprendo che anche questi sono malati e hanno bisogno di una potatura.

Rispetto al secondo punto, Aemilia e le precedenti vicende giudiziarie inerenti questo stesso gruppo criminale suggeriscono che colpire le mafie al Nord vuol dire colpire le mafie al Sud. È vero che il Tribunale di Reggio Emilia ha stabilito che quello messo sotto processo era un gruppo “autonomo”, ma questo è vero sul piano giudiziario e ai fini dell’accertamento delle responsabilità degli imputati. Di fatto, stiamo parlando delle stesse persone, degli stessi affari, degli stessi denari che si muovono incessantemente tra Nord e Sud. La proiezione al Nord di un gruppo che ha la sua base nel Mezzogiorno non è, semplicemente, un’appendice, una filiale che, come un punto vendita di una catena di supermercati, si può chiudere pensando che l’organizzazione patisca solo il mancato guadagno di quel punto vendita. Se la potatura del ramo non avviene al momento opportuno, è l’intera pianta che soffre, smette di far frutti e rischia addirittura di morire. Fuor di metafora: i gruppi criminali sono organizzazioni e come tutte le organizzazioni sono fatte di ruoli, di gerarchie, di competenze e professionalità. Tutte cose che, se buttate improvvisamente all’aria da una sentenza (e bloccate per anni da un’indagine), non si ripristinano nello spazio di un mattino. Un primario diventa esperto e capace dopo anni di formazione ed esperienza. Allo stesso modo, le capacità criminali si apprendono, si affinano, maturano. Poi si fanno valere sul campo e producono i loro frutti (sebbene avvelenati).

Sul piano delle dinamiche criminali tra gruppi, la presenza al Nord va poi intesa come un vantaggio competitivo che un gruppo che opera al Sud può giocarsi. Un vantaggio rispetto ad altri gruppi criminali che tali proiezioni non hanno. Non bisogna infatti dimenticare che quella cosa che comodamente chiamiamo “’ndrangheta” (ma lo stesso si può dire delle altre mafie) è in verità una galassia molto eterogenea al proprio interno e caratterizzata da un’elevata conflittualità, a volte carsica, altre volte manifesta. Di più: la presenza al Nord, in alcune circostanze, è una risorsa che può essere giocata in maniera decisiva per stabilire gli equilibri interni a un gruppo criminale nella sua “casa madre” al Sud. Le vicende emiliane sono sul punto davvero eloquenti: quando il vecchio boss Dragone esce dal carcere, a metà degli anni Duemila, e prepara la controffensiva contro una fazione interna al gruppo, ha la necessità di procurarsi armi, una macchina blindata, infissi blindati per la sua abitazione ecc. Insomma, deve curarsi dei presupposti materiali della sfida militare che si sta per aprire e che deciderà la leadership del gruppo. Ebbene, egli non cerca i soldi in Calabria (o forse li cerca ma non li trova), ma manda un suo nipote a bussare alla porta di imprenditori emiliani di origine cutrese. Il boss, purtroppo per lui, da lì a poco sarà ucciso in un agguato: la macchina blindata, che nel frattempo aveva comprata (usata), non lo salvò dalla fazione avversaria che lo bloccò su una strada e gli puntò contro un bazooka. Tra l’altro, dalle carte del processo Aemilia emerge che anche l’organizzazione dell’omicidio fu finanziata grazie ai soldi raccolti in Emilia-Romagna.

In conclusione, la sentenza Aemilia non ci parla solo del processo e nemmeno solo dell’Emilia. A chi la sa vedere, mostra la pianta e non solo il ramo.