Mentre con gran concorso d’autorità e cittadini si celebrava il trentennale della strage di Capaci, l’amministrazione municipale di Palermo è scivolata inesorabilmente tra le braccia del centrodestra. C’è cascata fin dal primo turno, visto che la legge siciliana prevede che se un solo concorrente supera il 40%, non ci sarà il ballottaggio. Non ha fatto da freno, l’avallo che il candidato sindaco Roberto Lagalla, ex assessore Cdu della giunta regionale Musumeci ed ex rettore dell’ateneo, ha apertamente ottenuto da due figure discutibili come Marcello Dell’Utri e Salvatore Cuffaro, entrambi condannati per questioni di mafia. Perché scandalizzarsi? Se l’è chiesto qualche osservatore dotato di un po’ di scorza: la redenzione del reo è fondamento della giustizia democratica. Non è servito nemmeno l’arresto alla vigilia del voto di due candidati consiglieri del centrodestra, sempre per questioni di mafia.

Due gli schieramenti principali in lizza. A sostenere Lagalla, un tipico arruffato assembramento di centrodestra che comprendeva ben otto liste: Forza Italia, Lega (sotto l’etichetta di Prima l’Italia, capeggiata da un ex-5 Stelle), Fratelli d’Italia (anche qui popolata di transfughi, persino ex-orlandiani), Nuova Dc di Cuffaro, una lista renziana (benché Renzi abbia ritirato il suo appoggio all'ultimo) e altre quattro liste sempre ascrivibili alla filiazione Dc-Cdu-Fi. Oltre che premessa di future spartizioni, la pletora di liste è una tattica. Ogni lista comprende 40 nomi: dunque 320 attivisti sguinzagliati per la città. Un’armata poderosa, a caccia di consensi tramite circuiti parentali, amicali, professionali, di vicinato e quant’altro.

Un’armata poderosa, a caccia di consensi tramite circuiti parentali, amicali, professionali, di vicinato e quant’altro

Il secondo schieramento era quello di centrosinistra. Candidato sindaco il presidente dell’Ordine nazionale degli architetti, Franco Miceli, sorretto da quattro liste: una guidata da Miceli stesso, una del Pd, una a 5 Stelle e una di Sinistra civica-ecologista. A tallonarlo, da un lato una candidata di sinistra radicale, e dall'altro, al centro, uno scalpitante ex-poulain orlandiano, candidato sindaco nel 2017 del centrodestra e ora arruolato tra le fila di Calenda, donde ha capeggiato ben tre liste.

Com’è finita? Lagalla è stato eletto con il 48% dei voti, ristabilendo un’antica presa del centrodestra sulla città che solo Orlando era riuscito a spezzare, insieme, per la verità, ai 5 Stelle, che alle ultime politiche avevano ottenuto il 46% dei voti. Solo che l’acqua sotto i ponti scorre in fretta: la lista a 5 Stelle è precipitata al 7%, Miceli si è fermato al 28%, la lista Pd ha appena superato il 10%. Sarebbe andata meglio una candidatura concordata con Ferrandelli, che ha preso dopotutto il 15% (5 punti in più delle liste che lo sostenevano)? Difficile rispondere, perché comunque la coalizione avrebbe perso qualche pezzo importante.

È fuor di dubbio che sul centrosinistra abbia pesato il lascito di Orlando, di cui è apparso la prosecuzione. Per chi abbia conosciuto la Palermo degli anni Ottanta, Orlando è stato un grande sindaco. Ha tenuto alla larga i comitati d’affari, ha rilanciato le istituzioni culturali e ha salvato uno straordinario centro storico che stava per dissolversi. Passati otto anni, nel 2000, la città è tornata in mano al centrodestra per un decennio, con esiti catastrofici. Richiamato in servizio nel 2012, le ultime performance dell’amministrazione Orlando hanno però deluso, specie su quattro questioni: raccolta rifiuti, cimiteri, traffico e grandi opere.

È un fallimento che si spiega. Palermo è una città povera e ha un’amministrazione comunale povera. Valga il caso della Tari: l’evasione sfiora il 50%, con un mancato introito di 193 milioni di euro nel quadriennio 2016-2019. Ma il comune manca di personale per perseguire gli evasori e i mancati introiti, sommati alle iugulatorie manovre di finanza pubblica, hanno bloccato le assunzioni. A Torino, con 100 mila abitanti in più, il municipio ha il doppio dei dipendenti (a Palermo sono meno di 8 mila, affollati nelle mansioni più basse) e il doppio dei dirigenti (a Palermo c’è al momento un solo dirigente tecnico). Il serpente si morde la coda e nessuno dà una mano al sindaco e ai cittadini. Il governo regionale è sempre stato ostile. Quello nazionale latitante, come pure i partiti nazionali. Anche il Pd, che avrebbe dovuto difendere un’amministrazione amica. Quanto i cittadini comuni, anche i più istruiti, sono in grado di apprezzare simili dettagli?

Il problema dei problemi è però un altro. Palermo non ha mezzi per pagarsi un’amministrazione comunale decente, ma soffre pure un’insopportabile condizione di disagio sociale: vale, in grande, quanto ha osservato Enrica Morlicchio nella sua riflessione su Torre Annunziata. La mobilitazione antimafia, che negli anni Ottanta condusse Orlando alla guida di Palermo, aveva persuaso anche i ceti disagiati. Una volta che la città si fosse liberata dalla mafia, il disagio si sarebbe ridotto. Purtroppo, le cose non sono andate come promesso. Grazie ad alcuni valorosi collaboratori, le amministrazioni Orlando hanno restaurato il centro storico e promosso importanti iniziative culturali. Ne hanno giovato l’edilizia e il flusso turistico. Ma la qualità dell’occupazione è mediocre in ambo i casi, sempre che non si risolva in lavoro sottopagato o in nero. Conta di più il prolungato declino del settore manifatturiero. Palermo non è mai stata una città industriale, ma fino agli anni Ottanta ha saputo difendersi, tra Cantieri navali, Keller, Fiat di Termini Imerese, Italtel ecc. Secondo dati del 2015, il valore aggiunto del già depresso settore manifatturiero, dal 2008 è sceso dal 5,5% a meno del 3%. E la situazione è peggiorata. Anche il terziario è stato molto maltrattato. Sono svanite due importanti istituzioni bancarie (il Banco di Sicilia e la Cassa di risparmio) e il terziario pubblico è dimagrito. L’università, che pure vanta un’illustre tradizione in molti settori, è stata depauperata dai discutibili criteri di attribuzione dei finanziamenti. Tre megacentri commerciali hanno devastato la piccola distribuzione. Nel 2021, nell’area metropolitana di Palermo, 63 mila nuclei familiari hanno fruito del reddito di cittadinanza: metà, verosimilmente, in città. Su 700 mila abitanti è un bel numero. Dal disagio conseguono infiniti inconvenienti: abbandono scolastico, microcriminalità, comportamenti uncivic ecc. Purtroppo, non si campa nemmeno di antimafia, di cultura e di eventi.

Non sottovalutiamo le responsabilità locali, anche l’amministrazione Orlando ha fatto i suoi errori. Ma i comuni non fanno miracoli, specie con le casse vuote. Palermo, come tutto il Mezzogiorno, è stata lasciata sola a sostenere la sfida della deindustrializzazione, del declino e poi dell’austerità. Anzi: è stata una strategia concentrarsi sulla difesa del sistema industriale settentrionale (anche se con fortune molto alterne).

Il centrodestra esulta per il successo. Ma il vero vincitore delle elezioni è l’astensione. Delusi, gli elettori si distraggono. Il fenomeno è nazionale, ma a Palermo si è giunti al 60%. Si sono astenuti perfino i presidenti di seggio: alle 14 di domenica 40 seggi non erano ancora stati aperti. Qualcuno denuncia un complotto, ma forse è solo un segno del grave decadimento del regime democratico.

Palermo conferma che il Mezzogiorno non ce la farà mai da solo e che chi nasce e vive da queste parti è un italiano a metà. Se vuole esserlo per intero, deve andarsene

Per un largo pezzo di società palermitana, non solo per i ceti più disagiati, il centrodestra è l’usato sicuro. Ma se guardiamo ai precedenti (l'intermezzo 2001-2011), poco c’è da aspettarsi dalla nuova amministrazione. Le risorse distribuite a pioggia dal Pnrr risolveranno le emergenze estreme, ma potrebbero incoraggiare affari poco limpidi; qualche servizio riprenderà un po’ di fiato, magari privatizzandosi; la pressione ad alienare un cespite lucroso come l’aeroportosarà fortissima per fare cassa. Vedremo chi oserà mettere in discussione i parcheggi selvaggi, l’invasività dei dehors e gli abusi edilizi che usano da queste parti.

Se ve ne fosse bisogno, Palermo conferma che il Mezzogiorno non ce la farà mai da solo e che chi nasce e vive da queste parti è un italiano a metà. Se vuole esserlo per intero, deve andarsene. L’ideologia che ha condotto ad affrontare la deindustrializzazione e la revisione della spesa pubblica, mettendo città e regioni in concorrenza, ha scoraggiato i segmenti progressisti, storicamente minoritari, della società meridionale e ha premiato quelli regressivi, deprimendo ulteriormente l’economia. Sulla miseria di queste parti il centrodestra costruisce le sue fortune nazionali. E il centrosinistra le sue disgrazie. Non riesce a capire che non basta immolare un galantuomo, né sostenere fino alla morte il governo Draghi, per rendere appetibile la sua offerta elettorale.