Il 1992 è un anno che assume valore periodizzante, l’anno che segna insieme l’epilogo degli Ottanta e l’avvio del processo di disarticolazione degli assetti del potere politico su cui da quasi mezzo secolo poggia la governabilità italiana. Ѐ il periodo che nella rappresentazione simbolica e nella definizione del senso comune mostra le forme del «trauma collettivo», del «dramma nazionale» che vede rincorrersi gli eventi quasi fossero tessere impazzite di un mosaico in frantumi: le inchieste della magistratura destinate a rivelare l’esistenza di un perverso intreccio fra politica e affari; gli avvisi di garanzia che piovono sul capo e affievoliscono l’influenza di uomini di governo e leader di partito interpreti di un pezzo importante di storia repubblicana; l’irrompere sulla scena di un protagonismo dei mass-media che si afferma in modalità inedite rispetto al passato, saldandosi con – e amplificando il – desiderio di «novità» espresso dalla «società civile»; l’attacco della mafia che punta dritto al cuore dello Stato per metterlo in ginocchio; la crisi monetaria e finanziaria che impatta sulla credibilità internazionale del sistema-Paese.

E tutto si innesta nell’orizzonte del mutamento geopolitico figlio dell’Ottantanove, con la fine della Guerra fredda che spezza i vincoli, rimodula gli spazi e modifica gli imperativi, ma permette anche di superare i vecchi riferimenti partitici che già da tempo, in verità, avevano esaurito la loro forza propulsiva, o quantomeno perduto la capacità analitica di leggere la modernità. Il vincolo esterno europeo – e il nuovo impulso al processo di costruzione comunitaria – avrebbe inoltre condizionato le scelte dei governi in materia di bilancio, sfilando dalle mani delle forze politiche anche la leva della spesa pubblica, decisiva ai fini della riproduzione del consenso.

Il 6 aprile del 1992, i risultati delle prime elezioni politiche del dopo Guerra fredda (con la preferenza unica sulla scheda di voto, come stabilito dal referendum del giugno dell'anno prima) fotografano la portata del processo disgregativo in atto: L’Italia protesta, elezioni terremoto, titola in prima pagina il «Corriere della Sera»; Ѐ crollato il Muro Dc, si legge a caratteri cubitali su «la Repubblica». La coalizione di quadripartito (Dc-Psi-Psdi-Pli) che ha tenuto in mano le redini del governo nel corso degli ultimi dodici mesi, esce dalle urne frammentata e indebolita elettoralmente, ma conserva comunque la maggioranza dei seggi in entrambi i rami del Parlamento, ciò che forse dà fiato alla certezza illusoria che ci sia ancora tempo per intervenire sulla crisi dei meccanismi della rappresentanza e per ricucire il tessuto dei rapporti con l’opinione pubblica.

Al Quirinale, frattanto, il capo dello Stato, Francesco Cossiga, matura il convincimento che una fase della vita repubblicana così complessa necessiti della «conduzione forte» di un presidente «nella pienezza dei poteri». Di qui, la decisione di anticipare la fine del mandato, annunciando le dimissioni nella data simbolica del 25 aprile. Gli succede sul Colle più alto della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, la cui elezione al sedicesimo scrutinio è frutto dell’ondata emotiva che investe il Paese dopo la strage di Capaci, e dell’esigenza che la classe politica offra segnali di responsabilità nei confronti degli italiani.

Per mettere in moto l’undicesima legislatura bisogna adesso guardare all’altra importante scadenza istituzionale, ovvero la formazione del governo. La scelta di Scalfaro cade sul socialista Giuliano Amato, sostenuto dalle forze del vecchio quadripartito: il 28 giugno 1992 nasce l’ultimo esecutivo «politico» della «Prima Repubblica».

Venerdì 3 luglio, nel dibattito sulla fiducia alla nuova compagine ministeriale, prende la parola alla Camera Bettino Craxi, l’uomo che dal 1976 tiene saldamente in mano il timone del Partito socialista

Venerdì 3 luglio, nel dibattito sulla fiducia alla nuova compagine ministeriale, prende la parola alla Camera Bettino Craxi, l’uomo che dal 1976 tiene saldamente in mano il timone del Partito socialista e da almeno un decennio si muove da protagonista indiscusso sullo scacchiere politico.

Il clima intorno ai palazzi del potere è infuocato, le inchieste sulla corruzione politico-amministrativa ormai dilagano, non più solo a Milano, epicentro di «Mani pulite», ma in tutta Italia: «Il popolo è in festa», annota il quotidiano «La Stampa», e «gode di avere ragione»: «ha sempre sospettato dello Stato, dei partiti, di tutti i partiti, di tutti i dirigenti, dai segretari di periferia ai capi romani, e finalmente ecco le prove».

Nel discorso di Craxi, l’ordine degli argomenti si articola in maniera tale da stabilire una connessione tra l’esistenza di una profonda crisi del sistema politico-istituzionale, sempre meno in sintonia con le articolazioni vitali di una società profondamente cambiata, e la necessità di assicurare al Paese una guida stabile che offra soluzioni risolutive in un frangente segnato soprattutto dall’emergenza finanziaria e da quella criminale. L’insistenza sul valore della «governabilità», quindi, un elemento costante nel perimetro narrativo del leader socialista, e l’«orrore» per il «vuoto politico» in cui «tutto si logora, si degrada, si decompone».

L’ex presidente del Consiglio non manca poi di riferirsi ai nuovi sviluppi del processo di integrazione dell’Europa, dopo che il Trattato di Maastricht ha definito le tappe per l’adozione della moneta unica e posto in risalto «la vocazione dell’Unione a trattare tutti gli aspetti della politica estera, sicurezza e difesa».

L’intervento del segretario del Garofano acquista però un rilievo storico significativo nell’istante in cui si orienta sul problema della «moralizzazione della vita pubblica»: dal suo scranno alla Camera, Craxi alza il velo sulla prassi del finanziamento del sistema politico «in buona parte irregolare o illegale», con tutto il corollario di «degenerazioni», «abusi», e «illegalità» che «si compiono da tempo», anzi «da tempo immemorabile», ma tutto ciò – avverte – non deve diventare «un esplosivo» per far saltare un sistema, per delegittimare una classe dirigente.

Egli punta l’indice contro chi «immagina o progetta» di poter sostituire i partiti «con simboli e poteri taumaturgici» privi di legittimità e natura democratica, e così sollecita il Parlamento a «reagire», a «guardare alto e lontano», ad offrire una soluzione politica alla crisi della Repubblica, distinguendo il piano delle dinamiche – certamente degenerate – di funzionamento del sistema, dai fenomeni di corruzione e concussione che chiamano in causa le responsabilità personali, e che come tali «vanno definiti, trattati, provati e giudicati».

Fu una chiamata in correità? Il tentativo affannoso di salvaguardare gli equilibri di potere? La denuncia di un sistema che poteva forse ancora trovare nel perimetro della politica la forza per rigenerarsi?

Con molta probabilità si è già fuori tempo massimo, ma comunque l’invocazione si disperde nel silenzio dell’Aula, più eloquente di ogni parola, «denso di verità», come avrebbe poi raccontato lo stesso Craxi alcuni anni dopo, facendo esercizio di memoria.

Fu quella una chiamata in correità? Il tentativo affannoso di salvaguardare gli equilibri di potere? La denuncia di un sistema che poteva forse ancora trovare nel perimetro della politica la forza per rigenerarsi? È difficile attribuire a quel discorso un’unica motivazione, ma sta di fatto che la mancata risposta del Parlamento scolpisce sul piano storico il fallimento della prospettiva volta ad evitare che il tema del finanziamento ai partiti riceva trattazione esclusivamente giudiziaria.

Bettino Craxi sarebbe intervenuto ancora sulla «questione morale» il 29 aprile e il 4 agosto 1993, in quelli che saranno gli ultimi suoi discorsi a Montecitorio dopo venticinque anni di ininterrotta presenza parlamentare. Lo scenario nel frattempo è mutato, sul banco degli imputati è finito proprio lui, raggiunto da una serie di avvisi di garanzia per ipotesi di reato che vanno dalla corruzione alla violazione delle norme sul finanziamento pubblico dei partiti. A differenza del 3 luglio 92, andrà in scena un’arringa difensiva, evidente allorquando verrà ribadito che il tema del finanziamento illegale alle attività politiche ha «radici antiche» e «ben ripartite», che i fenomeni di immoralità e le situazioni di degrado nella vita pubblica esistono, ma «non nascono negli anni Ottanta». Da ultimo, prima della richiesta di lasciare «il caso Craxi al suo destino», l’ormai ex leader del Psi avrebbe interrogato – proprio come fosse l’avvocato difensore del sistema – quell’Aula ancora una volta silente: «Davvero, onorevoli colleghi, siamo stati protagonisti, testimoni o complici di un dominio criminale? Davvero la politica e le maggioranze politiche si sono imposte ai cittadini attraverso l’attuazione e il sostegno di disegni criminosi?».

Interrogativi complessi che trent’anni dopo attendono risposta, sovrastati dalle dinamiche di una transizione infinita di cui non si vede ancora il punto di approdo.