Come molti della mia generazione dell’immediato dopoguerra, sono cresciuta nello spirito del ’45: vivevamo in uno Stato di diritto e lo praticavamo con impegno; criticavamo lo Stato in nome della Costituzione e dei diritti da conquistare; perseguivamo il possibile mettendo a frutto quel principio di base dello Stato di diritto secondo il quale tutto ciò che non è espressamente proibito è consentito, e dunque si può fare.

Ne è un esempio il fatto al quale la data si riferisce, semplicemente l'approvazione di una delibera di un'amministrazione provinciale. L’ho scelta perché rappresenta esemplarmente quel che è stato possibile fare e come, sotto l’egida di quel principio. E forse aiuta anche a vedere le tracce di un principio opposto che oggi vorrebbe imporsi, e che potrebbe suonare così: tutto ciò che non è espressamente richiesto si pone fuori dall’ordine sociale.

È il 27 settembre 1973. Siamo a Trieste, dove da un paio d’anni lo psichiatra Franco Basaglia è direttore del manicomio su incarico della provincia da cui la struttura dipende. Basaglia vi sta proseguendo l’impegno, avviato a Gorizia negli anni Sessanta, a superare la psichiatria manicomiale con il suo armamentario di tecniche violente e teorie disumanizzanti, e a ricostruire possibilità di vita per gli internati, fuori dall’istituzione totale. È accompagnato da un movimento di tecnici nel frattempo divenuto nazionale e sostenuto da quel clima politico che dicevo. È l’epoca nella quale le riforme erano perseguite come conquiste dal basso (cioè politiche, non manageriali). Tra cui appunto la riforma psichiatrica nota come «Legge Basaglia», che arriverà nel 1978.

Quel giorno viene approvata la delibera n. 1161 della provincia di Trieste, firmata dal presidente Michele Zanetti (della Dc), che definisce così il suo oggetto: «Trasformazione dell’attività ergoterapica dei degenti in terapia riabilitativa». Dal linguaggio si capisce che questa delibera sta recependo un cambiamento tecnico di cui l’autorità pubblica competente riconosce la coerenza con il mandato istituzionale: si sancisce la fine di quella pratica dei lavoretti svolti dai degenti per conto dello staff, tipica di tutte le istituzioni totali – una misura di custodia, non di cura –, e la si sostituisce con una «terapia riabilitativa». Questa deve avere il «fine di ridonare al paziente una dimensione più reale del proprio corpo, del proprio spazio, del proprio tempo, sì da condurlo ad una più completa comprensione e conoscenza di sé, ridandogli una dignità umana e una possibilità di vivere un’esperienza più vicina possibile alla reale dimensione sociale per facilitarne gradualmente il reinserimento nella comunità».

Assumendo questo fine, la delibera stabilisce di riconoscere nell’«»organizzazione autonoma dei degenti», espressa nella costituzione davanti al notaio di una cooperativa – la Cooperativa lavoratori uniti –, il modo adeguato per affidare al lavoro quel fine riabilitativo; specifica che la democrazia del lavoro perseguita dal «sistema cooperativistico» va considerata l’ambiente lavorativo più adatto a questo fine; e stabilisce di affidare a tale cooperativa l’insieme degli incarichi di pulizia e manutenzione della struttura, con un elenco dettagliato, il calcolo delle ore-lavoro e il relativo conteggio economico. In questo modo – si afferma – l’internato «viene a risultare prima lavoratore e poi malato», ossia dotato di un’identità sociale che la malattia – qualunque malattia, anche quella mentale – non può annullare. Ed è tramite questo passaggio che si comincia a rompere «la barriera tra interno ed esterno del nosocomio».

Rileggendo questa delibera mi si è allargato il cuore, ma poco dopo si è stretto in una morsa. Supponendo che questi movimenti del cuore siano un buon esercizio per la coscienza civile, provo a darne conto.

C’è intanto una storia di civiltà. L’atto di nascita di quella cooperativa di matti fa ripercorrere con la memoria l’intero arco della trasformazione «dalla psichiatria alla salute mentale» fino a oggi: quella cooperativa, la Clu, ha 260 addetti (di cui circa la metà ha problemi di salute mentale) e un fatturato annuo di 6 milioni di euro. Non soltanto: nasce così la prima di quelle cooperative sociali per l’inserimento lavorativo di «soggetti svantaggiati» della legge 381/1991 (e successive) che hanno costituito uno dei dispositivi centrali del Welfare italiano.

Allarga il cuore quel coraggio civile di fare sul serio il proprio mestiere – di tecnico, di amministratore – e di esercitare il relativo potere istituzionale assumendone la responsabilità come persone; e c’è quella dignità della politica – una «politica democratica» come direbbe Karl Polanyi – grazie alla quale s’incontrano il tecnico e l’amministratore per discutere di fini. C’è poi quell’atto pubblico, significativo di per sé: dispiegare l’arte interpretativa che è propria del diritto, come dice il grande giurista Alain Supiot, per riconoscere ufficialmente la possibilità che «i degenti» escano dal manicomio per reinserirsi «nella comunità» (una possibilità di maggiore giustizia pronunciata ufficialmente, ma non contemplata giuridicamente). Infatti, benché la civilissima legge Mariotti (1968) fosse intervenuta in materia, la stragrande maggioranza degli internati era ancora privata dei diritti civili. C’è dunque una tensione tra ciò che la legge vigente stabilisce e ciò che la giustizia richiede di fare: l’autorità pubblica competente assume su di sé per l’appunto questa tensione, deliberando in base alla giustizia da affermare, e apre alla possibilità del cambiamento della legge perché corrisponda, almeno un po’ di più, alla giustizia.

A stringermi il cuore non è stata la storia di quella cooperativa, tutto sommato considerata felice, e nemmeno quella delle cooperative sociali, per quanto non proprio esaltante. In materia di valore del lavoro che quella delibera rappresenta così bene, purtroppo conosciamo già la distanza che ci separa da quell’epoca, e ci siamo in qualche modo assuefatti al problema, che rimane irrisolto.

Quanto al coraggio civile dei protagonisti, mi rendo conto che per qualificare quella loro virtù pubblica sono ricorsa a parole di oggi. Oggi, ad allargare il nostro cuore civile sono per l’appunto manifestazioni personali di coraggio in azioni di disobbedienza civile o di testimonianza. Oltre a quelle più classiche attorno ai diritti civili, sono andate crescendo le manifestazioni di solidarietà umana che richiedono coraggio civile. L’impressione è tuttavia che queste crescano mentre si vanno riducendo molti altri spazi e modi per agire politicamente, non da ultimi quelli dentro e attraverso le istituzioni, appunto per cambiarle «secondo giustizia», come aveva fatto la nostra delibera. Il sindaco di Riace, Mimmo Lucano, potrebbe essere un esempio recente di qualcuno che ha provato a fare sul serio il proprio mestiere, di primo cittadino in questo caso, per aprire a delle possibilità «secondo giustizia». Ma si sa che non ha funzionato, e che il cambiamento istituzionale voluto non si è realizzato.

Anzi, ancora sul terreno della solidarietà verso i migranti – che potrebbero equivalere oggi, come sensori di civiltà, ai matti di allora – una divaricazione tra persone e istituzioni, e tra il coraggio personale della disobbedienza e la stupidità brutale delle istituzioni, è sempre più palese. Il guaio è che mentre lo spettacolo dello scontro occupa la scena, in questa divaricazione diventa lacerante anche quella tensione tra la legge e la giustizia dalla quale, come abbiamo visto, scaturiva con la mediazione del diritto la possibilità di adeguare la prima alla seconda. Invece, la «legalità» oggi tanto celebrata, senza più legami con questioni di giustizia, rischia di diventare un valore in sé, e le relative norme indiscutibili alla stregua di regole tecniche. È così che potrebbe prender corpo quel principio che dicevo all’inizio, per cui tutte le azioni sociali non richieste da queste norme, che non si allineano a comportamenti programmati, sarebbero variamente sanzionate. Allora diremmo addio anche allo Stato di diritto e assisteremmo alla nascita di un mondo orwelliano.