Nella prima conferenza stampa da ministro degli Esteri a margine del congresso delle “Due Sessioni”, Qin Gang si è presentato al mondo con un tono particolarmente bellicoso, soprattutto nei confronti degli Stati Uniti. L’avvertimento a Washington è di abbandonare al più presto l’approccio competitivo a somma zero, pena il rischio inevitabile di “conflitto e scontro” tra le due potenze. Come ha notato il “Financial Times”, la leadership cinese si trova a dover certificare una rimodulazione al ribasso delle aspettative di crescita del Pil, sintomo di un’economia che fatica a riprendersi anche a causa dell’“incertezza internazionale”. In questo senso, il tono di Qin sembra riflettere l’ansia di Pechino per una realtà globale in cui il caos crescente, che ha nella guerra in Ucraina il proprio apice, finisce per nuocere agli interessi cinesi. Da qui quel fermento che negli ultimi mesi ha caratterizzato la politica estera della Repubblica popolare, culminato con il tentativo di (ri)definire la visione cinese della sicurezza globale e del conflitto ucraino.

Sul finire di febbraio, infatti, il ministero degli Esteri cinese ha pubblicato tre documenti di fondamentale importanza per comprendere la visione – ma anche le contraddizioni – di Pechino del mondo e della comunità internazionale. Il concept paper della Global Security Initiative (da qui in avanti, Gsi), il caustico saggio US Hegemony and its Perils e in ultimo il documento che illustra la proposta cinese per una soluzione politica alla guerra in Ucraina, se letti in combinato disposto, raccontano di una visione cinese che sostanzialmente contiene due anime distinte e forse inconciliabili. Da un lato quella competitiva che vede negli Stati Uniti la potenza, forse decadente ma ancora egemone, che attraverso strumenti unilaterali continua a (im)porsi sopra il diritto e gli organismi internazionali. Dall’altro quella del bisogno irrisolto di accreditarsi ed essere accreditata, in primis da Washington, come grande potenza responsabile, sintomo di un percorso di accettazione nella comunità internazionale che almeno in parte continua a mantenere l’ accettazione di responsabilità anche nel contesto di crescente competizione con gli Stati Uniti. Queste due anime, che potremmo definire di lotta e di governo, sono foriere di quel senso di incoerenza e inconsistenza che emerge quasi inevitabilmente dalla lettura della proposta cinese per una soluzione alla guerra in Ucraina.

Una coincidenza inusuale quella di vedere pubblicati senza soluzione di continuità tre documenti ufficiali di questo genere, ma difficilmente casuale. D’altronde, il 24 febbraio si è compiuto il primo, tragico anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina, un fatto clamoroso che oggi sembra aver messo in evidenza tutte le tensioni, i limiti e le contraddizioni della politica estera – ma, appunto, sarebbe meglio dire della visione del mondo – di Pechino. Contraddizioni che, come ricorda Evan A. Feigenbaum, restano un tratto fondativo e distintivo della politica cinese a partire dal saggio di Mao Zedong del 1937 – Sulle contraddizioni – e che oggi si manifestano nella formulazione di proposte per la comunità internazionale tra loro apparentemente dissonati e prevedibilmente prive di profondità pratica e attuativa.

Per esempio, non deve stupire che nonostante l’origine sia il ministero degli Esteri – un organo naturalmente associato a una funzione politica ma anche tecnica – i due documenti sull’egemonia statunitense e sul conflitto in Ucraina finiscano per avere un valore più filosofico e di posizionamento invece che pratico e policy-oriented. Viceversa, la Gsi è presentata come articolazione diretta del pensiero di Xi Jinping, probabilmente il segretario del Pcc più accentratore e potente dall’epoca di Mao, e assume un valore filosofico-fondativo ancora più prominente, ulteriormente accentuato dalla natura “olistica” della proposta cinese. Il documento è coerente con l’obiettivo di presentare la Cina come un attore responsabile e devoto al rispetto e all’implementazione dei dettami della Carta delle Nazioni Unite. Qui è interessante notare che il carattere multilaterale dell’Onu diventa particolarmente pregnante in contrapposizione all’unilateralismo e alle sue manifestazioni (una su tutte l’uso delle sanzioni economiche) che la Cina imputa – implicitamente nella Gsi – agli Stati Uniti. In questo senso è importante sottolineare come la proposta cinese sia calibrata per mantenere una certa distanza da posizione revisioniste, accreditandosi, come scrive Rana Mitter, come membro fondatore e difensore dell’ordine post-Seconda guerra mondiale.

Il tema della mentalità “win-win”, centrale nella narrazione legata alla cooperazione nel contesto della Belt and Road Initiative, viene declinato nel documento come risposta necessaria a quella che è la diagnosi di Pechino sulle fonti profonde di (in)sicurezza della comunità internazionale: una serie di sfide comuni che si intersecano richiedendo non solo soluzioni concertate, ma anche e soprattutto rispetto alle preoccupazioni di sicurezza di tutti i membri della comunità. Una valutazione, quest’ultima, che, ritornando alla proposta cinese per l’Ucraina, finisce per offrire un certo grado di legittimazione alla narrazione dell’accerchiamento da parte della Nato rivendicata da Putin.

In ultima istanza, l’insistere sulla necessità di comprensione e rispetto delle preoccupazioni legittime di ogni membro della comunità internazionale appare una malcelata ammissione dei timori cinesi riguardo la propria sicurezza, sulla falsariga di un altro caposaldo della politica esterna di Pechino, quel rispetto della sovranità che risulta centrale anche nella Gsi e che è legato a doppio filo alla questione taiwanese. Secondo il principio di “una sola Cina”, la Repubblica popolare non solo non riconosce l’indipendenza di Taiwan ma considera l’isola parte inseparabile del “sacro territorio” cinese. Su questa base, dunque, l’enfasi che la Cina ha storicamente posto sul rispetto della sovranità e integrità territoriale e sulla non interferenza come principi fondativi delle relazioni internazionali ha rilevanza diretta su una delle principali fonti di tensione tra Pechino, Taipei e Washington.

Ma l’aspetto forse più interessante è quello che la Cina sottolinei come preoccupazione principale della sicurezza internazionale, anche nel secondo punto del piano per l’Ucraina, la necessità di evitare una mentalità da Guerra fredda. L’idea di un sistema diviso in blocchi di potenza in cui, secondo i documenti cinesi, viene necessariamente meno il riconoscimento delle legittime preoccupazioni altrui risulta una perdita netta per la comunità internazionale.

Pechino finisce per accarezzare e dunque riprodurre una grammatica, quella della Guerra fredda, che sta pericolosamente ritornando dominante in molti circoli accademici e di potere occidentali

La contraddizione, però, diviene evidente nel momento in cui Pechino finisce per accarezzare e dunque riprodurre una grammatica, quella appunto della Guerra fredda, che sta pericolosamente ritornando dominante in molti circoli accademici e di potere occidentali. Dissonante nell’uso di un linguaggio ben poco diplomatico ma solo apparentemente scollegato dagli altri due documenti, il saggio US Hegemony and its Perils (il cui titolo originale in cinese mandarino aggettiva l’egemonia statunitense come “lunatica, violenta e prepotente”) prende la forma di un rapporto che, “presentando fatti rilevanti”, espone l’abuso della propria posizione egemonica da parte degli Stati Uniti dalla politica alla cultura, passando per l’egemonia militare, economica e tecnologica. Tuttavia, più che effettivamente smascherare i tratti dell’egemonia statunitense, l’obiettivo del saggio sembra essere quello, certamente non nuovo, di accattivarsi una audience tanto globale quanto specifica: quel gruppo più o meno ampio di Paesi, soprattutto del Global South, insofferenti verso Washington (molti dei quali si sono astenuti nelle recenti votazioni nell’Assemblea generale dell’Onu sulla risoluzione rispetto alla guerra in Ucraina).

La diversità dell’approccio cinese propone “un nuovo modello di relazioni tra Stati basato su dialogo e partnership”, non-interferenza e rifiuto della politica di egemonia direttamente contrapposto al modello di “scontro e alleanze” e politica di potenza degli Stati Uniti. La dicotomia che emerge, tranchant nel definire due approcci assolutamente distinti e inconciliabili, finisce in qualche modo per ripiegarsi su quella contrapposizione tra visioni e sistemi che fu propria della Guerra fredda. È precisamente la lettura consecutiva della Gsi e del saggio sull’egemonia statunitense a restituire un senso di tensione e contraddizione nella visione cinese del mondo dove l’elemento propositivo dell’iniziativa di sicurezza, attraversato da una necessità di legittimazione che specchia la celebre chiamata alla “responsabilità [di Pechino] di rafforzare il sistema internazionale” pronunciata nel 2005 dal sottosegretario di Stato americano Robert B. Zoellick, si regge, forse inevitabilmente, su una dicotomia conflittuale con la potenza che, in una logica bipolare de facto, è il principale punto di rifermento e di conflitto dell’ascesa cinese.

Il piano cinese per l’Ucraina ha ben poco del piano di pace: una serie a tratti banale di punti che, più che offrire una road map pratica per la risoluzione del conflitto, segnalano gli interessi della Cina

Il piano cinese per l’Ucraina, che, come tanti hanno scritto, ha ben poco del piano di pace (ma forse non ha neanche mai avuto l’ambizione di esserlo), è la sintesi perfetta delle contraddizioni di cui sopra. Una serie a tratti banale di punti che, come si diceva, hanno una capacità limitata di offrire una road map pratica per la risoluzione del conflitto ma che finiscono invece per segnalare più gli interessi della Cina che quelli di Russia e Ucraina. La richiesta stessa di una soluzione politica al conflitto suggerisce una crescente insofferenza, largamente egoriferita, verso il perdurare indefinito della campagna militare che va a materializzarsi concretamente nei punti in cui Pechino chiede sia di facilitare l’esportazione di grano sia di non utilizzare il sistema economico internazionale come un’arma politica attraverso l’abuso delle sanzioni.

Se alcuni dei punti presentati da Pechino risultano difficilmente non condivisibili – dalla protezione dei prigionieri di guerra alla riduzione del rischio strategico alla protezione degli impianti nucleari civili per arrivare, prosaicamente, alla richiesta di cessazione delle ostilità – altri sono assai meno accettabili da un punto di vista occidentale. Si pensi alla richiesta di sospendere l’utilizzo di sanzioni unilaterali (una posizione ben radicata nella retorica di politica estera cinese ma non priva di contraddizioni) che oggi rappresentano il principale strumento messo in campo dagli Stati Uniti e dall’Unione europea per ostacolare lo sforzo bellico russo. Oppure, ancor più palesemente, l’uso del termine “crisi” per descrivere la guerra russa in Ucraina e l’assenza di un’indicazione chiara della Russia come aggressore. È difficile pensare che queste scelte precise non sia ragionate. Piuttosto, indicano ancora una volta che i 12 punti cinesi sono il frutto di una sintesi tra contraddizioni e, in definitiva, offrono una prospettiva ulteriore su queste piuttosto che una credibile proposta di pace per l’Ucraina.

La Cina, dunque, resta una potenza eminentemente “egoista”, la cui risposta alla guerra in Ucraina, ma anche la relazione stessa tra Pechino e Mosca e, in senso più ampio, la sua stessa visione del mondo, sono da intendersi come articolazione primaria di interessi complessi e, di nuovo, contraddittori. A un anno dall’invasione russa dell’Ucraina, la sensazione è che Pechino sia di fronte a un dilemma che, prima ancora di generare un definitivo ripensamento delle proprie scelte di coinvolgimento più o meno diretto nel conflitto, racconta di una possibile sottovalutazione sia della durata della guerra sia della possibilità di una sconfitta russa. Sospesa tra “l’amicizia senza limiti” con Mosca e l’esigenza di rimanere, almeno retoricamente, entro quel perimetro dettato dal ruolo, reclamato nella Gsi e nella proposta politica per l’Ucraina, di potenza responsabile, Pechino ha finora giocato sulla propria ambiguità. Quel che sembra sempre più palese è che il calcolo strategico cinese, a oggi, sia servito al meglio da una situazione in cui la Russia esce indebolita dal conflitto ma non collassata su sé stessa – un risultato su cui Pechino sembra finora non aver avuto controllo diretto.

La pubblicazione della proposta per una soluzione politica alla guerra in Ucraina e la diffusione della Gsi e del saggio US Hegemony and its Perils potrebbero dunque suggerire un maggior protagonismo cinese nella guerra in Ucraina, i cui tratti concreti sono ancora tutti da definire e potrebbero essere in contraddizione con l’accettazione di responsabilità.