La pubblicità è un ottimo indicatore per segnalare le potenzialità di un mezzo di comunicazione. Nella storia dei media, il mezzo pubblicitario più forte ha sempre coinciso con il mezzo di comunicazione più diffuso: fino agli anni Ottanta il mezzo più importante è stato la stampa, attraverso quotidiani e periodici, quando il mercato della pubblicità era piuttosto contenuto; in seguito è subentrata la televisione, che grazie alle Tv commerciali è arrivata a detenere il 65% di un mercato che nel frattempo era esploso; adesso è il web che sta gradatamente subentrando alla Tv.

Nel 2020, infatti, il web ha raggiunto la televisione per quota di mercato. L’incontrastato dominio della televisione, che durava da quarant’anni, cioè dalla nascita delle Tv commerciali, sta quindi venendo meno. Entrambi i mezzi hanno il 43% di quota del mercato, ma è probabile che il web continui a erodere ulteriore terreno alla Tv; in particolare quando le potenzialità del web si potranno esprimere al massimo, quando avremo per esempio un’infrastruttura della rete che garantisca una velocità e una copertura del segnale adeguati agli standard tecnologici raggiunti dalla fibra ottica e in linea con quanto avviene nei Paesi più avanzati.

I dati e le immagini transitano sulla rete, che rappresenta le cosiddette autostrade informatiche. Proprio la funzione altamente strategica svolta dalla rete dovrebbe suggerire che essa sia considerata un bene pubblico e che le sue funzioni siano catalogabili come servizio pubblico. Idea che, però, non è presa in considerazione.

Vediamo qual è la situazione. Intanto si deve decidere chi deve ammodernare la rete e chi deve gestirla. Tim sta rinnovando la sua vecchia rete basata sul rame con la fibra ottica, mentre Open Fiber, società di Cassa Depositi e Prestiti (il 50% appartiene all’Enel, quota che sta per essere ceduta a un fondo estero), sta portando avanti una propria rete che, non operando direttamente nella telefonia, affitterà agli altri operatori privati. Per cui ci sono sostanzialmente due reti, col rischio di moltiplicazioni di costi e con la concreta possibilità che la copertura del segnale non arrivi nelle zone a «fallimento di mercato» per la loro scarsa densità. Il buon senso suggerirebbe, così da evitare duplicazioni e aumenti dei costi, che la scelta migliore sia quella di una rete unica, progetto di cui si parla da anni senza risultati finora concreti.

La tesi, sostenuta anche dalle autorità europee, che avvalla il progetto è questa: la rete dev’essere unica, per evitare la duplicazione dei costi, ma anche neutrale, nel senso che non deve appartenere a un operatore telefonico, per evitare contraccolpi negativi alla concorrenza. In sostanza, bisognerebbe scindere la gestione della rete dalle attività commerciali che là vi si svolgono, per tutelare le pari condizioni di accesso alla rete stessa da parte di tutti gli operatori. Questa parità di accesso può essere garantita, secondo il parere di molti, solo da un soggetto neutro, che non svolga attività di telecomunicazioni. Per rafforzare la neutralità dell’operatore si è sempre pensato che la rete dovesse essere gestita da un soggetto pubblico, soggetto che dovrebbe essere la Open Fiber o una sua società aperta anche al capitale privato (nel Regno Unito, invece, la rete è gestita da una società privata).

Il progetto è fermo da anni, ogni tanto ritorna attuale, ma i veti e gli interessi contrapposti dei soggetti coinvolti rimandano la sua realizzazione. Tim vorrebbe avere la maggioranza della nuova società, pur dichiarando di non volere un ruolo egemone nella gestione. Nel contempo c’è il problema della valutazione dei suoi asset, la vecchia rete in rame e la nuova, che confluirebbero nella nuova società. A complicare la vicenda c’è anche l’assetto proprietario di Tim, con i fondi ancora maggioritari ma con una forte presenza del gruppo francese Vivendi, azionista che singolarmente detiene la quota maggiore (23,9% delle azioni), a cui si aggiunge la Cassa Depositi e Prestiti (9,9%). Vivendi è, fra l’altro, protagonista di un tentativo di scalata a Mediaset. A questo punto merita ricordare che i network televisivi hanno da temere lo sviluppo del web che potrebbe erodere, come detto inizialmente, ulteriori quote del mercato pubblicitario.

Come si vede c’è un complicato intreccio difficile da districare. Lo dovrebbe e potrebbe fare lo Stato, attraverso le sue società, ma finora non c’è stato alcun intervento. Nei fatti la costruzione e l’aggiornamento della rete in fibra ottica va avanti, seppur a rilento, da parte di Tim e Open Fiber (sembra che i due operatori utilizzino oltretutto tecnologie diverse e ciò renderebbe complicata un’eventuale unificazione).

I dati diffusi dalle aziende parlano di uno stato avanzato del progetto della rete in fibra con una copertura ampia fino agli «armadi stradali», mentre è ancora contenuta quella fino all’interno delle abitazioni. C’è anche da rilevare che la copertura del territorio è a macchia di leopardo, dove le zone meno «ricche» subiscono handicap non indifferenti, e anche nelle grandi città vi sono quartieri con una copertura limitata. I dati forniti da diverse agenzie, come l’AgCom, indicano infatti ritardi sulla copertura del segnale, causando velocità di connessione e stabilità della stessa inferiori rispetto alle potenzialità delle nuove tecnologie e rispetto ai dati degli altri Paesi europei.

I ritardi sulla rete hanno impatti negativi sul sistema-Paese, data l’importanza del web in tutti i settori del lavoro. Non a caso l’impegno per l’ammodernamento della rete (come la banda ultra-veloce) è fra le priorità del governo e una finalità dei contributi che arrivano dall’Europa. Per quanto riguarda il sistema dei media, rileviamo invece che il mezzo televisivo trae vantaggio da questa situazione di stallo che rallenta l’avanzata del web.