Occuparsi della politica italiana è raramente un esercizio confortante. Dall’inizio degli anni Novanta il nostro sistema politico alterna fasi di relativa stabilità, seppure caratterizzate da intensa conflittualità politica, a repentini rimescolamenti di carte, che tuttavia non sfociano mai in un equilibrio duraturo. L’offerta politica è varia, ma non esaltante. Abbiamo diversi partiti personali, una forte presenza della destra nazionalista, con venature xenofobe, distribuita tra due partiti che insieme hanno un consenso considerevole, un partito antisistema (il M5S) pronto a tutto, ma capace di poco; e infine il Pd, l’usato sicuro cui ancora si aggrappano le speranze di un elettorato che va dalla sinistra al centro, dai socialisti ai liberali di diverse tendenze. L’ingrediente indispensabile di ogni ricetta che non ci conduca fuori dall’Europa, ma nello stesso tempo un «partito ipotetico» (per riprendere la felice espressione di Edmondo Berselli) che non riesce a portare a termine la propria eterna transizione da un passato rispettabile a un futuro troppo vago per essere attraente. Su questo panorama politico peculiare, che solo superficialmente assomiglia a quelli dei nostri principali partner europei e occidentali, la pandemia si è abbattuta provocando un effetto paragonabile a quello dell’asteroide che ha causato l’estinzione dei dinosauri. Una catastrofe naturale inattesa (anche se prevedibile, nel nostro caso) che muta in maniera radicale le condizioni ambientali, minacciando la sopravvivenza di chi, nonostante tutto, tirava a campare nelle condizioni non sempre agevoli offerte dalla propria nicchia ecologica.

A una prima fase di sgomento, nella quale gli italiani si sono affidati al governo in carica come unico punto di riferimento sicuro in una situazione di incertezza, ha fatto seguito un lento ma inesorabile processo di erosione dei presupposti che avevano portato alla nascita di un esecutivo di compromesso, che si reggeva sull’incontro di diverse debolezze.

La durata della pandemia (anche questa inattesa, seppure non certo imprevedibile) ha fatto venire al pettine tutti i nodi mai del tutto sciolti del nostro Paese. Un’economia che fatica a tenere il passo con la competizione internazionale, appesantita dal fardello del debito pubblico, una classe media spaventata, che oscilla tra la voglia di cambiare e la paura del nuovo, e un sistema politico che non riesce a dare una riposta convincente a problemi la cui soluzione comporta inevitabilmente scelte difficili, spesso dolorose, come sono sempre quelle che impongono una qualche forma di redistribuzione degli oneri e dei benefici della cooperazione sociale. Se in un primo momento la figura di Giuseppe Conte, un leader per caso, ha fatto da catalizzatore della risposta organizzata all’emergenza, la sua inconsistenza politica non ha retto alle tensioni montanti provocate dalla gestione della lunga coda della pandemia. Che offre grandi opportunità di cambiamento, ma innesca inevitabilmente un conflitto durissimo tra tutti coloro che, in modo legittimo, hanno un interesse da far valere in vista di una ricostruzione che si annuncia difficilissima. L’esito finale, cui abbiamo assistito in questi giorni, con una delle crisi di governo più avvilenti della nostra storia recente, è chiaramente il risultato di un conflitto sul controllo delle risorse a disposizione per uscire dalla crisi. Importanti, grazie ai fondi europei, eppure scarse alla luce dei nodi irrisolti di cui si diceva. L’abilità con cui Renzi ha sfruttato la debolezza dei suoi avversari (che erano anche i suoi partner in una maggioranza di cui lui stesso è stato tra gli artefici) ci consegna oggi l’ipotesi di un governo guidato da un tecnico di altissimo profilo internazionale, che è chiamato però a risolvere un puzzle che lo costringerà a fare i conti con qualcosa con cui non ha dovuto misurarsi in precedenza: l’opinione pubblica di un Paese in crisi, e il consenso degli elettori, che in democrazia sono sempre sullo sfondo di qualunque decisione, anche se non si è formalmente in campagna elettorale. Personalmente sono incline a diffidare dell’«uomo della provvidenza». Per chi ci crede, la provvidenza è una forza imperscrutabile, i cui disegni sono decifrabili, e sempre con qualche incertezza, solo quando si sono già realizzati. Ciò che Mario Draghi ha fatto in passato, come civil servant e come banchiere centrale, non consente di affermare con certezza in che direzione si orienterà la sua azione in futuro. L’uomo ha mostrato, anche di recente, di essere un pragmatista. La situazione, anche a livello internazionale, non è più quella del 2008. Dogmi sono stati messi in discussione, nuove minacce si sono palesate, che in Italia destano grande preoccupazione.

Per ora il primo auspicio che mi sentirei di formulare è che il governo che verrà sia da subito riconoscibile come un governo di scopo (che affronti i problemi più urgenti legati alla gestione della pandemia), accompagnando il Paese all’esito naturale di una crisi politica, che sono le elezioni, nel modo più spedito possibile, date le circostanze. Non si sciolgono i nodi di fondo di una democrazia improvvisata come quella italiana con voti presi a prestito. Le lezioni degli ultimi anni sono, da questo punto di vista, eloquenti. Anche un governo di scopo deve tuttavia misurarsi con scelte di natura politica. Non esistono governi tecnici, come gli studiosi non si stancano mai di ricordarci. L’ipocrisia alla lunga non paga, mai. Da qui il secondo auspicio, che quello che viene sia anche un governo che tenga conto di un valore fondamentale: l’equità. Resistere alla tentazione, sempre presente, di far pagare solo a una parte degli italiani il costo di una transizione dolorosa. Ricucire la trama da tempo strappata della solidarietà tra cittadini, tra gruppi sociali, tra aree geografiche del nostro bellissimo e complicato Paese. Guardare, insomma, al modello di Carlo Azeglio Ciampi.

Sul piano strettamente politico questo comporta resistere alla pressione, evidente in alcune tra le reazioni alla convocazione di Draghi al Quirinale, di chi non vede l’ora di chiudere la stagione sfortunata dell’alleanza tra Pd e M5s, vedendo nella caduta del governo Conte il segnale di un ritorno alla normalità: la vittoria finale dei competenti sugli incompetenti, il trionfo della meritocrazia sull’arroganza dei mediocri. Sono questi sentimenti che mal si adattano a una democrazia liberale basata sull’eguale rispetto. L’idea di un’aristocrazia che si autoproclama tale è una pericolosa illusione, che non può che aumentare ulteriormente, e in modo pernicioso, il solco tra istituzioni e società civile, tra classi dirigenti e cittadini. Le aristocrazie europee del passato trovavano la propria legittimazione non nel merito, che spesso lasciava a desiderare, ma nel legame con la terra e con gli interessi di lungo periodo di chi la abita e la coltiva. Mai questo legame era più evidente agli occhi del popolo che nel corso di una guerra, quando l’aristocrazia forniva i quadri dell’esercito, e mandava i propri figli a morire, se necessario, in difesa degli interessi nazionali. L’ultimo esempio di questo tipo di modello, quello dell’aristocrazia britannica, lo abbiamo visto perire nelle trincee della Prima guerra mondiale. Un mondo finito, che non si può rianimare artificialmente con la retorica meritocratica. Un’aristocrazia di cosmopoliti il cui principale interesse è la mobilità del capitale finanziario non può andare lontano quando entra in conflitto con una parte consistente della popolazione. Questa è la sfida epocale da cui dipende la sostenibilità delle nostre democrazie. Anche in Italia abbiamo tale problema, e non ci sarà soluzione stabile alla nostra crisi fino a quando non avremo ritrovato un equilibrio virtuoso tra la classe dirigente e il resto del Paese. L’alternativa è già davanti ai nostri occhi, e si compiace del proprio successo nel sorriso beffardo degli autocrati, da Riad a Mosca, da Pechino a Budapest. Blandirli non può essere il futuro della democrazia.