Nel 1986 Yoweri Kaguta Museveni, guerrigliero appena salito al potere dopo anni di lotta contro il regime di Milton Obote, dichiarò che «il problema dell’Africa in generale e dell’Uganda in particolare non è il popolo, ma i leader che vogliono rimanere al potere più del dovuto». Trentacinque anni e cinque mandati dopo, il 14 gennaio scorso Museveni ha conquistato la sua sesta nomina presidenziale consecutiva al termine di una campagna elettorale caratterizzata da violenze, repressione dell’opposizione e brogli.

In un Paese in cui l’età mediana rasenta i 16 anni, la maggioranza degli ugandesi non ha mai conosciuto altro governo se non quello guidato dal comandante del National Resistance Movement, dominus di una democrazia di facciata di cui controlla quasi ogni leva. Il «contadino gentiluomo» settantaseienne non è nuovo a violenze e manipolazioni elettorali, pratiche su cui ha sempre più fatto affidamento sin dalle prime elezioni presidenziali concesse nel 1996. La sua refrattarietà al pensionamento è nota da tempo: rimangiatosi la promessa di ritirarsi alla fine del secondo mandato, nel 2005 Museveni spinse il Parlamento a emendare la Costituzione rimuovendo il divieto di terza candidatura; la Carta ugandese ha subito un nuovo lifting nel 2017 con la rimozione del limite d’età di 75 anni, che gli avrebbe impedito di ripresentarsi in quest’ultima tornata.

Per quanto amato in passato, negli anni le crescenti disparità economico-sociali tra milioni di giovani diseredati e una casta di burocrati e imprenditori, arricchitisi grazie alle loro connessioni con gli ambienti governativi, ha generato un risentimento sempre maggiore nei confronti del presidente e del suo entourage. Inoltre, una parte del Nord del Paese non ha mai dimenticato i massicci abusi dei diritti umani perpetrati dalle forze governative ai danni della popolazione civile durante la guerra contro i ribelli del Lord’s Resistance Army di Joseph Kony tra gli anni Ottanta e Duemila, a cui si aggiunge la strisciante tensione tra Museveni e i leader tradizionali di alcuni gruppi etnici mai allineatisi al regime ‒ primo su tutti quello dei baganda, popolosa etnia insediata nella capitale Kampala e nei distretti limitrofi.

A partire dal 2017, il dissenso nei confronti del governo si è progressivamente coagulato attorno alla figura di Robert Kyagulanyi Ssentamu, in arte Bobi Wine, famoso musicista, filantropo e attivista di origine baganda cresciuto in una delle più grandi baraccopoli della capitale. Candidatosi alle presidenziali con l’intento dichiarato di porre fine al corrotto regime di Museveni e dare una prospettiva di benessere economico ai milioni di giovani ugandesi, in pochi anni il consenso verso Wine e il suo movimento progressista People Power (ora National Unity Platform ‒ Nup) è cresciuto esponenzialmente diventando un pericolo capitale per l’élite al potere. Wine è stato più volte arrestato, ha subito torture e svariati tentativi di assassinio, da ultimo l’esplosione di colpi di arma da fuoco contro la sua auto da parte della polizia il dicembre scorso.

Durante l’ultima campagna per le elezioni 2021 le forze di sicurezza non hanno avuto remore a disperdere le manifestazioni del Nup con lacrimogeni e proiettili veri, mietendo decine di morti e centinaia di feriti. Allo stesso tempo, la pandemia di Covid-19 è divenuta un nuovo pretesto per l’arresto di Wine e altri dirigenti del movimento con l’accusa di «mobilitazione massiccia di assemblee e cortei non autorizzati» in violazione delle norme sanitarie. Il 12 gennaio scorso, a due giorni dalle elezioni, il presidente ugandese ha ordinato lo shutdown totale di internet (riabilitato solo sei giorni dopo, il 18 gennaio) e l’accesso ai social media rimane tuttora sospeso a tempo indeterminato.

Museveni è stato dichiarato vincitore con il 59% dei voti contro il 35% di Bobi Wine. La denuncia di brogli da parte di quest’ultimo non si è fatta attendere, né tantomeno la risposta governativa: il 17 gennaio un contingente di soldati ha invaso l’abitazione dell’ex-cantante impedendo a chiunque di entrare e uscire per giorni, ignorando per più tempo possibile l’ordine di rilascio emanato dall’Alta corte ugandese. A fine mese la Commissione elettorale ha certificato la presenza di brogli, avvenuti soprattutto nei distretti baganda e in altre roccaforti del Nup; tuttavia, in linea con la propria ventennale tradizione, la Commissione ha dichiarato le elezioni come valide in quanto le irregolarità non incidono in modo sostanziale sui risultati dichiarati in precedenza.

A livello internazionale Museveni è stato bersaglio di un coro di critiche, non solo da parte delle organizzazioni per i diritti umani, ma anche dei suoi tradizionali alleati occidentali, seppur con diverse sfumature. Laddove il Regno Unito ha «accolto» il risultato elettorale limitandosi a invocare una pacifica risoluzione delle controversie, l’Ue ne ha «preso nota» rimarcando apertamente gli abusi governativi contro le forze di opposizione, la società civile e i media. Una posizione ancora più dura è stata presa dagli Stati Uniti della nuova amministrazione Biden: l’ambasciatrice americana a Kampala ha cercato di far visita a Wine durante gli arresti domiciliari, mentre il Dipartimento di Stato di Washington ha dichiarato «l’intenzione di intraprendere azioni contro i responsabili della compromissione della democrazia e dei diritti umani in Uganda».

I prossimi mesi diranno se tali parole troveranno sostanza e soprattutto se gli Stati Uniti imprimeranno una svolta nei rapporti con un alleato imbarazzante ma finora fondamentale, a cui forniscono ogni anno quasi un miliardo di dollari in aiuti allo sviluppo e militari. La longevità al potere di Museveni è infatti legata anche alla sua capacità di posizionarsi strategicamente come alleato dell’Occidente in cambio di supporto finanziario, prima prestandosi agli sforzi americani contro il governo islamista sudanese negli anni Novanta e poi fornendo il più numeroso contingente di soldati della missione Amisom in Somalia dal 2007 a oggi. Per quanto un taglio drastico degli aiuti potrebbe mettere in crisi il capillare sistema di clientele con cui il presidente mantiene le redini del potere, è difficile che i Paesi occidentali si spingano molto al di là di sanzioni simboliche: una crisi nelle relazioni con l’Uganda non farebbe altro che gettare il principale corridoio della regione dei Grandi Laghi tra le braccia della Cina, potenza con cui Kampala ha tessuto rapporti importanti e che ha molte meno pretese in tema di diritti umani.

L’Uganda sembra dunque incamminata sul filo di un rasoio. Per ora la situazione nel Paese rimane tesa ma pacifica, più grazie all’appello alla non-violenza di Wine che alle minacce presidenziali di soffocare qualsiasi disordine nel sangue; tuttavia, un eventuale assassinio del leader dell’opposizione segnerebbe l’inizio una fase ancora più precaria e la probabile escalation in una spirale di disordini e conflitti nel Paese.