Cosa distingue i rapporti diplomatici dalle relazioni pericolose, scomode e sbagliate con Paesi che calpestano i diritti umani? La risposta è facile, in fondo, ma vale la pena tornarci.

Non per spirito di polemica nei confronti dell’ex presidente del Consiglio, senatore e leader di Italia Viva, Matteo Renzi, ma perché proprio l’episodio dell’intervista al principe della corona saudita bin Salman ha aperto una discussione in materia. Eppure la differenza tra una relazione privata e una istituzionale non dovrebbe essere difficile da cogliere. Nei mesi scorsi, infatti, sia il presidente del Consiglio (uscente o rientrante che sia) Conte sia il ministro degli Esteri Di Maio si erano rivolti al principe saudita con parole più che gentili. In quelle occasioni non avevano parlato di diritti umani o di Yemen. Non avevano bloccato l’export di armi verso un Paese in guerra, vietato da una buona legge italiana frutto delle battaglie dei pacifisti, la l. 185/90, rimasta inapplicata fino al passaggio dalla maggioranza «gialloverde» a quella «giallorossa». Grave. Come sarebbe stato bello sentire menzionare questi temi da parte del presidente del Consiglio o del capo della Farnesina quando, in veste di rappresentanti del governo italiano, e prossimi presidenti del G20, hanno ricevuto la staffetta proprio da Riad.

Il tema non è dunque avere buone relazioni o parlare con dei satrapi o figure a capo di regimi autoritari o non democratici. Se non dovessimo parlare con chi vìola i diritti umani non dovremmo parlare con Cina, Russia, Iran, Egitto, Marocco, tutta la penisola araba, Israele, molti Paesi africani, Myanmar, Vietnam, Pakistan, India. Mi fermo ma potrei continuare. Per non dire degli enormi problemi di mancato rispetto dei diritti umani fondamentali nei confronti di rifugiati e richiedenti asilo anche in Europa.

Rompere le relazioni con chi non ci piace non sarebbe serio, non cambierebbe la situazione in quei Paesi, sminuirebbe il ruolo dell’Italia e danneggerebbe l’economia. La diplomazia e le relazioni internazionali non si basano su valori o morale – chi lo dice mente, come Bush quando sosteneva di voler esportare la democrazia in Medio Oriente. Diverso è mantenere rapporti con tutti questi Paesi, possibilmente incalzarli su alcune questioni sapendo come, quando e dove farlo. E in alcuni casi, di concerto con altri, adottare sanzioni efficaci. Magari anche dannose per l’economia. Lo si è fatto in maniera efficace con l’Iran prima di negoziare gli accordi sul nucleare stracciati da Donald Trump. Lo si fa con la Russia. Ma farne la politica di un solo Paese sarebbe infliggersi un danno senza ottenere risultati. Tra l’altro, alle opinioni pubbliche non interessa granché di come si viva in Iran, o degli immigrati filippini e bangladesi nella Penisola araba, e così i governi hanno timore a farlo. La relazione tra politica estera e interna (ovvero gli effetti della prima sulla seconda) sembra essere al centro della riflessione che l’amministrazione Biden sta facendo su cosa fare nei prossimi quattro anni. Ma questo è un altro discorso.

In questo momento storico, diversi Paesi con regimi autoritari in varia forma tendono a proporre se stessi come alternativa alla democrazia. Spesso questi regimi, cui pure capita di competere tra loro a livello regionale, hanno interessi comuni nell’isolare la nuova amministrazione Usa, avere un’Europa divisa, mostrare che queste chiacchiere sulla democrazia e i diritti umani sono, appunto, chiacchiere volte a mascherare la debolezza della forma di governo che prevede voto, libertà di parola, diritti umani. Aiutarli a veicolare questo messaggio è sbagliato. Si tratti di Riad, Teheran, Mosca, Pechino o Varsavia e Budapest.

Che equilibrio tenere dunque? La diplomazia, la politica estera, è tutto fuorché una scienza esatta. Come la politica del resto. Pesano le opinioni pubbliche, gli eserciti, le relazioni personali, le leadership di ciascun Paese, i rapporti commerciali, gli equilibri regionali, l’accesso alle risorse energetiche e naturali. Dunque non esiste una cosa sempre giusta da fare. Firmare prima degli altri, anzi, soli, la Via della Seta, quando si tratta anche di una strategia di Pechino per affermare la propria egemonia, ad esempio, è stato un errore del governo italiano. Non in assoluto, ma in questo caso, farlo senza aver riflettuto sul fatto che negli Stati Uniti si sarebbe votato, senza conoscere abbastanza Pechino, senza averne discusso a lungo con i partner europei di cui ci si fida, senza aver valutato i pro e contro economici e senza avere fatto una previsione di ciò che sarebbe successo di lì a sei mesi, come si fosse un’economia piccola e arretrata. È stata una mossa di politica estera spregiudicata, ma dannosa e ingenua, la ricerca di interlocutori fatta a casaccio da parte di leader politici che si erano appena affacciati sulla scena internazionale, privi di interlocuzioni con l’America e l’Europa.

Ma il tema qui è un altro ancora, non solo quello delle frequentazioni istituzionali che non ci piacciono (o ci indignano). Tanto Berlusconi quanto Renzi sono andati in pellegrinaggio da Nazarbayev, in Kazakistan, Paese che vanta grandi riserve di gas. E la Francia, chiunque sia il suo presidente, gioca sporco in Africa (e in Libia) a prescindere dall’Unione europea. Idrocarburi e armi sono la forza della grande industria italiana, ed è difficile pensare la politica estera prescindendo da esse. Ecco perché abbiamo a che fare con questi Paesi (non parliamo dei mercati del lusso cinese, russo, arabo).

Il mondo è complicato e la gita di Renzi a Riad sarebbe comprensibile se fosse stata autorizzata dal governo italiano. Ci sarebbero state proteste, si sarebbe chiesto un tono duro sullo Yemen, come è legittimo nei dibattiti che riguardano la conduzione della politica estera. Ma in questo caso siamo di fronte a un senatore che viaggia in forma privata per partecipare a un consesso di un’organizzazione che lo vede nel board, un senatore che viene pagato per questo e che quando parla si espone al ridicolo elogiando il Rinascimento Saudita. Salvo poi, in un colloquio con il «Corriere della sera», rilanciare, come spesso gli capita di fare: Riad è un baluardo dell’Occidente contro l’estremismo, è grazie ai sauditi che non siamo in balia dei terroristi, uno degli alleati più importanti. In questo modo, Renzi cerca di spostare il fuoco della polemica dal suo comportamento alla politica estera. Come se le decine di moschee wahabite costruite in giro per il mondo con soldi sauditi fossero state un motore per la diffusione di un islamismo moderno e capace di rinnovarsi! Diverse fonti di intelligence riferirono qualche anno fa che l’Isis riceveva fondi da Qatar e Arabia Saudita. Farah Pandit, Special Representative to Muslim Communities dell’amministrazione Obama scriveva nel marzo 2019: «L’estremismo è il primo export di Riad, l’Arabia Saudita è in guerra per avere un (pericoloso) monopolio della dottrina islamica». Naturalmente tutto è complicato e Riad è consapevole del danno di immagine internazionale e interno che il promuovere certe forme di religiosità le ha arrecato. Ma i regimi autocratici condotti in famiglia sono uno strano oggetto, basta una congiura di palazzo per cambiare le cose. Non solo: con Riad oggi ci può essere convergenza nella volontà di impedire alle cellule dell’Isis di crescere, ma questo non significa che i Sauditi debbano essere tra i nostri migliori alleati. In Afghanistan russi, cinesi, americani e persino iraniani cooperavano almeno un po’ per contenere le cellule che si formavano sulle montagne. E non si trattava certo di alleati.

Aggiungiamo un altro tassello. L’amministrazione Biden ha bloccato l’export di armi verso Riad a causa della guerra in Yemen e intende riprendere le complicate trattative con Teheran sul nucleare dopo che Trump ha gettato alle ortiche i passi avanti fatti nelle relazioni con la Repubblica islamica. Una delle ragioni per cui Riad appare contro il terrorismo è perché una parte di esso oggi è emanazione dell’arcinemico sciita. Israele e Sauditi sono fieramente contrari a questi passi dell’amministrazione Biden e lo stanno dicendo e facendo capire in tutte le salse. Sostenere Riad in questo modo, se si trattasse della posizione ufficiale italiana, è dunque, complicare ancora di più una partita di per sé difficile. Il nuovo Segretario di Stato Blinken ha una strada stretta, non può far infuriare Netanyahu e bin Salman, ma vuole disinnescare la mina iraniana.

Per concludere, l’Arabia Saudita e altri Paesi della penisola non sono solo importanti per il ruolo strategico che hanno ma per la quantità immane di risorse finanziarie che sono decisi a usare per conquistarsi, come stanno facendo, un posto ai tavoli che contano. Difendere il passaggio a Riad dicendo che l’Arabia Saudita è un alleato importante e un baluardo contro il terrorismo, come fa Renzi, potrebbe essere una linea di politica estera, ma non è quella dell’attuale governo italiano, e in ogni caso sarebbe una politica che guarda più al possibile ruolo dei fondi Sauditi in Italia che alla lotta al terrorismo o alla difesa dei diritti umani. Una scelta di interesse, non troppo diversa dalla firma sulla Via della Seta. Basta dire le cose per quel che sono.