Dopo la Seconda guerra mondiale i sistemi democratici dell’Occidente, governando lo sviluppo capitalista anche al fine di distribuirne i benefici alle classi lavoratrici, hanno creato le società più prospere, colte e libere che mai si siano avute in tutta la storia umana. È stato il trionfo della «democrazia liberale», non solo nel mondo anglosassone dove era nata, ma pure (e forse ancora di più) in buona parte dell’Europa continentale: qui è dove essa più compiutamente ha dimostrato di potere evolvere verso un assetto social-democratico che, oltre alla crescita economica e accanto ai diritti civili, si prefigge di garantire, con ambizione universalista, anche i diritti sociali.

Assieme allo sviluppo economico, il «capitalismo democratico» ha consentito la riduzione delle disuguaglianze e una mobilità sociale dal basso verso l’alto senza precedenti. Un processo simile, epocale, non è stato il risultato dello spontaneo operare del mercato, tantomeno della bontà di quelli che una volta si chiamavano «padroni»: ma l’esito delle lotte delle classi lavoratrici per la giustizia sociale, e dell’azione politica riformista delle forze che le rappresentavano, perlopiù sotto l’ombrello del «socialismo democratico», le quali hanno saputo volgere a vantaggio di coloro che mai avevano avuto voce le istituzioni del liberalismo e lo Stato nazione[1].

Oggi, nel tempo in cui per l’ennesima volta c’è chi annuncia che «il socialismo è morto», anche il liberalismo non si sente tanto bene. Poco dopo la celebre profezia di Francis Fukuyama sulla «fine della storia»[2], come per un’astuzia imprevista, le cose nel mondo hanno preso a girare ancor più vorticosamente e negli ultimi anni l’espansione delle democrazie liberali non solo si è arrestata, ma ha subito arretramenti e involuzioni. Freedom House è una Ong statunitense che sin dal 1941 (anno significativo: cambiò le sorti della guerra mondiale) monitora l’andamento della democrazia liberale nel mondo, attraverso una batteria di indicatori che vanno dalla libertà di stampa all’indipendenza della magistratura, oltre naturalmente alle libere elezioni: stando ai suoi report, è dall’inizio del 2000 che la democrazia sta arretrando nei Paesi avanzati[3]. È da notare peraltro che già negli anni Novanta del Novecento uno dei più accorti pensatori liberali, Ralf Dahrendorf, metteva in guardia sui numerosi rischi per le democrazie di scivolare verso un «progressivo autoritarismo[4]: un richiamo allora abbastanza isolato nel coro delle previsioni, delle speranze o delle colpevoli illusioni degli ottimisti, più o meno interessati.

Ma non solo. Le nuove economie emergenti non sembrano intenzionate a intraprendere quell’evoluzione democratica che avevamo messo in conto; al contrario. I regimi in tutto o in parte autocratici totalizzano una quota del Pil mondiale in rapida crescita, pur se è ancora lontana dal raggiungere quella delle democrazie liberali[5]. Pochi dubbi vi sono che su scala globale l’influenza di potenze non democratiche, ma pienamente capitaliste, come la Russia e la Cina, sia in ascesa. Anche democrazie relativamente affermate, come l’India, o Paesi importanti che sembravano avviati verso una stabilizzazione democratica, come la Turchia e il Brasile e forse anche altri del Sud America, negli ultimi anni stanno compiendo, o rischiano di compiere, gravi passi indietro. La consapevolezza del problema travalica ormai le discussioni fra gli studiosi, con ricadute anche nel più ampio dibattito civile.

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 6/19, pp. 883-901, è acquistabile qui

 


[1] Sulla difficoltà di ridurre le disuguaglianze in maniera pacifica nel corso della storia umana, e sull’eccezione rappresentata dalla golden age occidentale anche in virtù della competizione con l’alternativa comunista, cfr. ora W. Scheidel, La grande livellatrice. Violenza e disuguaglianza dalla preistoria a oggi, trad. it. Bologna, Il Mulino, 2019, in particolare pp. 271-293 per il comunismo.

[2] F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, trad. it. Milano, Rizzoli, 1992.

[3] L’ultimo report, per il 2019, si intitola significativamente «La democrazia in ritirata» (Freedom House, Democracy in Retreat. Freedom in the World 2019, 2019).

[4] R. Dahrendorf, Dopo la democrazia, trad. it. Roma - Bari, Laterza, 2001.

[5] Contrariamente a quanto ha scritto di recente «Foreign Affairs», creando un certo scalpore: Y. Mounk, The Dictator’s Last Stand. Why the New Autocrats Are Weaker Than They Look, «Foreign Affairs», September/October 2019.