“Contano sempre gli uomini prima delle idee. Per me le idee hanno sempre avuto occhi, naso, bocca, braccia, gambe. La mia storia politica è innanzi tutto una storia di presenze umane. L’Italia, quando meno ce lo si aspetta, si scopre che è piena anche di brave persone”. In poche righe Calvino mostra l’importanza dell’incontro con chi è capace di ispirarci, di motivarci ad agire, nei momenti di sconforto. Una verità di cui la generazione cresciuta sotto il fascismo e diventata adulta nella Resistenza era ben consapevole. Gli italiani e le italiane di sentimenti democratici avevano conosciuto l’amarezza della sconfitta al tempo della guerra di Spagna, quando le milizie guidate da Franco avevano battuto i repubblicani, anche grazie al contributo in mezzi e armi messo a disposizione da Mussolini e Hitler. Persino nella patria della democrazia parlamentare, il Regno Unito, il fascismo aveva trovato sostenitori, con le iniziative del New Party di Oswald Mosley, in seguito ribattezzato British Union of Fascists. L’adolescente Calvino, che pure provava repulsione per il fascismo, ne trasse la conseguenza che “il progresso era un’illusione, il mondo era dei peggiori”. Poi, dopo l’8 settembre, le cose cambiano. Spinti dal desiderio di liberarsi dei tedeschi, diventati da alleati occupanti, e dei fascisti, ritornati al potere con l’instaurazione della Repubblica Sociale, quegli stessi italiani che si erano rassegnati per disperazione a un mondo “dominato per sempre dal fascismo e dal nazismo” trovarono la forza per reagire e si ribellarono. Molti impugnarono le armi e, come Calvino e il fratello, salirono in montagna. La Resistenza non si spiega solo sulla base delle idee dell’antifascismo. Essa è fatta appunto di incontri – come quelli di Pin con Lupo Rosso e con il comandante Kim ne Il sentiero dei nidi di ragno – esempi che generano motivazione. Della scoperta di non essere soli, e del sentimento di solidarietà che si alimenta dal combattere insieme per una causa giusta.

Le osservazioni di Calvino su uomini e idee sono parte di un’intervista con Carlo Bo pubblicata nell’agosto del 1960. Poco più tardi, nello stesso anno, esce l’altro scritto da cui ho citato due brevi passaggi, un testo autobiografico. Le date sono essenziali perché ci aiutano a mettere le affermazioni dello scrittore sullo sfondo del contesto sociale e politico in cui egli si muoveva a quel tempo, che contribuisce a chiarirne il senso. Nel rispondere a Bo, Calvino allude alla sua presenza al Teatro Alfieri di Torino in occasione di una delle lezioni del ciclo organizzato da Franco Antonicelli su “Trent’anni di storia italiana (1915-1945)”. Non dobbiamo farci trarre in inganno dal titolo, che suona accademico. La prima lezione si tenne l’11 aprile, tre giorni dopo che il governo Tambroni aveva ottenuto la fiducia con i voti determinanti del Msi. L’affluenza, come scriverà qualche anno più tardi Corrado Stajano, “fu grandissima”. Nonostante la sua capienza, il teatro “non riuscì a ospitare tutto il pubblico che seguì anche all’aperto, fino all’una di notte, attraverso gli altoparlanti, le voci dei relatori”. Mentre all’interno del teatro si susseguivano le lezioni e le testimonianze di intellettuali e protagonisti dell’antifascismo come Basso, Venturi, Pajetta, Terracini, Pertini, Lussu, Togliatti e Bobbio “fuori i fascisti, a quindici anni dalla fine della guerra, sostenevano un governo della Repubblica. Le due Italie erano di nuovo a confronto in un cupo contrappunto”.

Restituiamo la parola a Calvino che, immediatamente prima di fare la sua riflessione su uomini e idee, rievoca, nel rispondere a Bo, la stessa atmosfera descritta da Stajano: “(…) in mezzo a questa folla ritrovavo le facce di quel piccolo grande mondo che è l’antifascismo, la gente della Resistenza, di nuovo insieme, qualsiasi via si fosse presa, e in più moltissimi giovani. Ebbene, è bello; ci siamo sempre, e contiamo; difatti, di lì a poco qualcosa si è visto”. A che cosa si riferisce Calvino? Chi legga oggi l’intervista in Eremita a Parigi (Mondadori, 1994) non trova alcuna spiegazione nelle scarne note editoriali che accompagnano il testo. Basta studiare la storia (che forse non a caso l’attuale governo vorrebbe mettere da parte nella formazione dei nostri studenti) per rispondere. Le lezioni torinesi si chiusero il 13 giugno, il Msi aveva chiesto (provocatoriamente) e ottenuto dal governo di tenere il proprio congresso nazionale, previsto per la fine del mese, a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. Calvino allude agli scontri scoppiati in città per impedire lo svolgimento delle assise del partito neofascista. All’epoca, proprio per sottolineare il legame tra le dieci lezioni torinesi e gli eventi di Genova, si disse che la rivolta fu “l’undicesima lezione” di Antonicelli.

Le osservazioni di Calvino da cui sono partito, e le circostanze in cui furono formulate, mi sono tornate in mente durante il fine settimana appena trascorso, forse perché offrono spunti di riflessione per un commento a margine dei due eventi politici che lo hanno caratterizzato: la manifestazione antirazzista di Milano e le primarie del Pd. Quando meno te lo aspetti, è bello scoprire che l’Italia, che sta dando pessima immagine di sé in questi mesi, è un Paese in cui ci sono anche “tante brave persone”. Come lo erano certamente tutte quelle che, in alcuni casi venendo da lontano, hanno sfilato per le strade di Milano per manifestare il proprio disgusto, in termini inequivocabili, per il modo in cui l’attuale governo (a trazione leghista, ma con la complicità attiva del M5S) sta aizzando i peggiori sentimenti di una parte (quanto ampia?) dei propri sostenitori. Oppure come quelle che il giorno dopo si sono messe in fila nei seggi approntati in tutta Italia per votare per il nuovo leader del Partito democratico. Bene hanno fatto gli organizzatori a legare in modo così stretto i due eventi. C’era un gran bisogno, da parte di chi vorrebbe opporsi all’attuale maggioranza, di contarsi, come fecero gli antifascisti nel 1960, di riconoscersi, di potersi dire che non si cede alla rassegnazione, che si ha voglia di impegnarsi per cambiare le cose. Scoraggiare i militanti per fare affidamento solo sui voti di opinione era una strategia forse buona per i “tempi freddi” di prima della crisi. Oggi le cose sono cambiate. Chi più chi meno, tutti i socialisti e i progressisti, sia europei sia statunitensi, hanno capito che per opporsi a un populismo nazionale militante ci vogliono militanti.

Se possiamo dire, con Calvino, “è bello; ci siamo sempre, e contiamo”, meno certi siamo delle conseguenze. L’antifascismo di ieri era solido perché fatto di una lega fusa dal calore di una guerra sanguinosa e spietata. Oggi sono sempre meno le persone ancora in vita che hanno preso parte alla Resistenza, come fece Calvino. La generazione dei nostri quarantenni, per sua fortuna, non è cresciuta negli anni difficili del fascismo, ma in quelli facili, facilissimi, dell’Erasmus. Ama la competizione individuale, specie quando si trova in posizione di relativo vantaggio, e coltiva poco sentimenti che fanno leva sulla dimensione collettiva e sociale, come la solidarietà. Intendiamoci, nessuno che si renda conto di ciò che dice può provare nostalgia per una politica che risolve le proprie dispute attraverso la violenza di piazza, come avvenne a Genova nel 1960. La storia non ci serve da modello in questo caso. Essa ci aiuta, tuttavia, a renderci conto che la strada da percorrere, se vogliamo affrontare la minaccia costituita da chi alimenta razzismo e discriminazioni, è probabilmente lunga, piena di ostacoli, e nessuno ha un’idea chiara, almeno per ora, di dove conduca.