Molti coltivano una certa diffidenza nei confronti dei sondaggi e, in particolare, nei confronti delle inchieste sulle intenzioni di voto, alla luce di un susseguirsi di previsioni apparentemente poco corrispondenti agli esiti effettivi delle elezioni. Basti pensare, solo per citare alcuni clamorosi insuccessi recenti, all’inatteso trionfo dei conservatori nelle elezioni parlamentari britanniche del 2015, all’affermazione dell’opzione anti-europeista nel referendum sulla Brexit nel 2016 e alla sorprendente vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi del 2016. Anche nelle elezioni politiche italiane del marzo 2018 i sondaggi hanno manifestato una limitata capacità predittiva. La coalizione di centro-destra, nel suo complesso, avrebbe dovuto raccogliere il 37% dei consensi, che è stata poi la sua quota di voti effettivi; tuttavia, in nessun sondaggio il peso elettorale della Lega risultava superiore a quello di Forza Italia – anzi quest’ultimo, in media, distanziava il suo partner di 3 punti percentuali. Il ribaltamento dei rapporti di forza fra i due partiti (17% per la Lega contro il 14% di Forza Italia) è stato forse il risultato politicamente più saliente delle elezioni. La coalizione di centro-sinistra ha espresso una dinamica piatta nei sondaggi pre-elettorali con una media dei consensi pari al 27%: oltre 4 punti percentuali al di sopra dell’esito effettivo. Sebbene per il Partito democratico i sondaggi avessero registrato un leggero calo dei consensi nel corso della campagna, la previsione media complessiva del 23% è stata comunque abbondantemente superiore al 19% dei voti reali. Per il Movimento 5 Stelle, infine, i sondaggi pre-elettorali indicavano un livello di consensi pari al 28,5%, sottostimando apprezzabilmente (di oltre 5 punti percentuali) il risultato effettivo. Insomma, i tre esiti politicamente più significativi delle elezioni (quattro, se si considera la notevole sovrastima dei consensi per Liberi e uguali) sono sfuggiti completamente ai sondaggi pre-elettorali.

Va riconosciuto che i sondaggi che “non ci azzeccano” hanno una visibilità maggiore di quelli riusciti: i sondaggi “riusciti” non fanno notizia e sono immediatamente dimenticati. La nostra percezione dell’affidabilità predittiva dei sondaggi è in parte distorta dalla copertura mediatica post-elettorale ad essi riservata. Secondo un recente studio pubblicato su “Nature” che prende in esame oltre 35 mila inchieste sulle intenzioni di voto riguardanti 351 elezioni politiche in 45 Paesi fra il 1942 e il 2017, la capacità predittiva dei sondaggi pre-elettorali non è, nel complesso, peggiorata; alcuni recenti casi di insuccesso (come quelli qui menzionati) sono tutt’altro che eventi atipici.

Nelle democrazie le indagini campionarie su argomenti politici ed elettorali svolgono funzioni rilevanti. Tali ricerche – in modo chiaramente più netto quando i loro risultati sono resi pubblici e non si occupano riduttivamente della sola horse race (“chi vince?”) – segnalano orientamenti, aspettative, esigenze, percezioni, giudizi e comportamenti dei cittadini nei confronti di istituzioni, partiti, leader, gruppi sociali, progetti, provvedimenti e così via. In questo senso, i sondaggi possono dar luogo a un flusso di informazioni più esteso, più articolato e più costante nel tempo rispetto a quello generato dalle consultazioni elettorali vere e proprie, che sono relativamente infrequenti e solitamente caratterizzate da contenuti generici. Se i sondaggi su argomenti politici svolgono senz’altro funzioni positive, è altrettanto vero che alcuni temono che i medesimi sondaggi possano essere usati per manipolare gli orientamenti degli elettori e per influire sulle scelte dei decisori politici (si pensi all’effetto che i sondaggi pre-elettorali in vista delle elezioni europee del maggio 2019 paiono esercitare oggi sull’azione di governo della compagine gialloverde in Italia). Alla luce delle loro funzioni (sia positive sia negative), in molti Paesi i sondaggi pre-elettorali sono sottoposti a vincoli di vario genere o persino vietati. In Italia, com’è noto, il vincolo più saliente consiste nel divieto di diffusione dei risultati di inchieste sulle intenzioni di voto nei quindici giorni precedenti la corrispondente consultazione elettorale.

Nel settembre 2018 la World association for public opinion research (Wapor), in collaborazione con Esomar, ha pubblicato il sesto rapporto su “Freedom to conduct opinion polls: A 2017 worldwide update”. Si tratta della più recente edizione di una rilevazione periodica che ha avuto inizio nel 1984. Il nuovo rapporto si avvale di una base empirica particolarmente ampia, in quanto dà notizia dell’intelaiatura normativa e latamente culturale che governa la realizzazione di sondaggi in ben 133 Paesi. I promotori dell’indagine sottolineano che il diritto di condurre e pubblicare sondaggi è ricompreso nella libertà di espressione sancita dall’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La soppressione di conoscenze sugli orientamenti della cittadinanza danneggia i votanti, specie nelle fasi conclusive delle campagne elettorali, quando solo alcuni gruppi privilegiati possono accedere a informazioni preziose. Durante il blackout, specie quando è duraturo, l’elettore medio è esposto solo a voci poco documentate sui livelli di consenso goduti dalle forze politiche. Inoltre, i divieti di diffusione spingono i realizzatori di sondaggi a non affinare più di tanto i loro strumenti; tanto, se non si azzecca il risultato, si può sempre dare la colpa a repentini movimenti di opinione nel periodo di divieto.

Un divieto di pubblicare sondaggi vige, in qualche forma, in ben 79 Paesi (il 60% del totale), la quota più alta mai registrata (peraltro a questi Stati potrebbero esserne aggiunti altri, a regime non democratico, che formalmente non vietano la diffusione dei sondaggi perché la manifestazione dell’opinione pubblica viene repressa o indirizzata in altro modo.) In 7 Paesi, asiatici e africani, la conduzione di sondaggi pre-elettorali non è ammessa. In 4 Paesi (Bolivia, Camerun, Honduras, Tunisia) la diffusione (non la realizzazione) viene interdetta dal trentesimo giorno precedente le elezioni; in altri 10 – fra cui l’Italia – il divieto ha comunque una durata superiore alle due settimane (gli altri Paesi sono: Cile, El Salvador, Guatemala, Panama, Paraguay, Singapore, Zambia e, in Europa, Montenegro e Slovacchia; l’Italia potrebbe – evidentemente – frequentare compagnie migliori). La mancanza di sondaggi politici è tendenzialmente più marcata in Asia e in Africa, mentre la presenza di ostacoli alla diffusione dei loro risultati caratterizza l’America Latina, dove oltre tutto ci si aspetta un ulteriore peggioramento in futuro.

Nel 40% dei Paesi la conduzione di sondaggi incontra maggiori difficoltà rispetto a 5 anni fa, in parte a causa di interventi restrittivi di origine governativa (come, oltre ai vincoli menzionati poco fa, l’interdizione degli exit polls). Ma entrano in gioco anche fattori di natura economica (maggiore onerosità delle inchieste di buona qualità, minori disponibilità finanziarie dei committenti), metodologica e professionale (declino dei tassi di partecipazione fra i potenziali intervistati, bassa offerta formativa specializzata per i ricercatori, scarsa adesione ai codici di comportamento da parte dei realizzatori di sondaggi) e comunicativa (competenza limitata dei giornalisti, incomprensione del significato degli esiti dei sondaggi).

A differenza delle edizioni precedenti, purtroppo, nel nuovo rapporto le informazioni di dettaglio sui singoli Paesi sono poco articolate… forse per evitare di urtare le sensibilità dei Paesi più ostili ai sondaggi? Ad ogni modo, la lettura del rapporto costituisce un’occasione per riflettere su un fenomeno di elevato rilievo politico e culturale che tendiamo a dare troppo per scontato. Per certi versi, il ruolo dei sondaggi ricorda la barzelletta che chiude il film Io e Annie: un tizio va dallo psichiatra e gli racconta di avere un fratello matto, convinto di essere una gallina; lo psichiatra gli chiede perché non fa ricoverare il fratello; il tizio ribatte “Eppoi a me le uova chi me le fa?”. Anche molti realizzatori di sondaggi raccontano di dover subire lunghe rimostranze sulla scarsa qualità del loro lavoro (come se la capacità predittiva di un sondaggio fosse l’unico parametro degno di considerazione), per poi sentirsi rivolgere immediatamente una supplica: “Allora, chi vince le prossime elezioni?”. Insomma, come recita la battuta conclusiva della pellicola di Woody Allen, “la maggior parte di noi ha bisogno di uova”.