La parabola discendente del Partito democratico, che dal 2008 – data del suo esordio – al 2018 ha perso circa sei milioni di voti, è sconvolgente. Proiettarla sullo sfondo della simile vicenda dei partiti socialisti europei non può essere un esercizio consolatorio; ci sono certamente cause specifiche. Anche quelle generali, però, hanno la loro importanza; le une e le altre convergono in una crisi che può essere considerata di rappresentanza o di identità. Crisi di rappresentanza significa, come ben dimostra Trigilia sulla scorta di analisi dei flussi, che il partito ha perso la sua base tradizionale, costituita da operai e dipendenti del settore pubblico e privato, senza tuttavia acquisire una sufficiente base moderata, di "centro", alla quale ha puntato da molto tempo, forse addirittura da Berlinguer.

Tale processo è più marcato in Italia, ma è del tutto affine a quanto accaduto, ad esempio, alla socialdemocrazia tedesca (per non parlare dei socialisti francesi). Bisognerebbe chiedersi come mai questo accade a tutti partiti socialisti, che cedono voti e rappresentanza a partiti di destra radicale o, in Italia, a partiti di incerto profilo ideologico ma certamente "antisistema". La mia impressione è che la risposta attenga, più che al livello dei partiti, a quello della composizione sociale. La globalizzazione, intrecciata con lo sviluppo tecnologico della produzione, ha polverizzato la vecchia classe operaia, privandola di quella unità che solo poteva farne un soggetto politico. Ciò non significa che non ci siano operai: ma non sono unificati dallo stesso rapporto col lavoro e con le sue condizioni. Inoltre è ben noto che lo spostamento delle decisioni verso livelli sovranazionali o in alcuni casi extrapolitici (il mercato finanziario, le grandi organizzazioni globali) ha svuotato la democrazia – che, finora, è sempre su base nazionale – e quindi anche i suoi soggetti: i partiti. Si può forse dire che i partiti socialisti, essendo stati per tutto il Novecento i maggiori interpreti della democrazia, sono anche i suoi soggetti che sono andati più rapidamente e più violentemente in crisi.

In sostanza, ritengo che la crisi dei partiti socialisti sia un aspetto della crisi della democrazia, che con tutta evidenza sta crescendo in Europa. Tenere in debito conto questo quadro europeo può servire per rovesciare un’analisi troppo facile, e troppo diffusa: che causa della crisi sarebbero le politiche di Renzi, e perfino il suo stile politico. Si dovrebbe forse dire che Renzi, al contrario, ha rallentato per un breve periodo il declino del Pd; ma non poteva fare più di tanto.

È bene però passare alle cause specifiche, che sono certamente le più importanti: se non altro perché sono le sole sulle quali si può intervenire. Il primo punto che vorrei sottolineare è che il Pd ha dato buona prova solo in due casi: il suo esordio nel 2008, e le elezioni europee del 2014. Tralasciamo il fatto che non si dovrebbero confrontare elezioni politiche con elezioni europee, perchè il voto europeo ha caratteri di libertà e direi di gratuità tutti suoi. Che cos’aveva in comune l’offerta politica del Pd nei due casi? È presto detto: la novità. Nel primo caso era lo stesso partito ad essere nuovo, tanto più nell’interpretazione di Veltroni (la "vocazione maggioritaria"). Nel secondo caso, la novità era rappresentata dal giovane segretario, vincitore delle primarie, caratterizzato dal tema della rottamazione.

Novità significa credibilità. E la credibilità è il problema principale del sistema politico italiano. Non erano credibili i Ds e la Margherita; non è stato credibile il Pd con la segreteria Bersani, che pur essendo all’opposizione non fu capace di disegnare un progetto per l’Italia ma consumò tre anni in una sterile discussione sulle alleanze, degna dei momenti peggiori della Prima Repubblica. Renzi è apparso credibile perché era un nuovo tipo di leader. Ma se la credibilità si basa solo sulla novità, non è destinata a durare molto. Renzi è riuscito solo in una prima fase a riempire la novità di contenuti importanti e positivi. Poi, in gran parte perché il suo fitto programma di riforme pestava i piedi a importanti gruppi di potere (i magistrati, i sindacati) o a strati sociali ben identificati (gli insegnanti, i dipendenti della pubblica amministrazione), ma in parte anche per suoi errori (aprire troppi fronti tutti insieme non è mai salutare; puntare tutto sul referendum costituzionale dopo la rottura con Berlusconi era suicida ecc.), non è più riuscito a tradurre la novità in credibilità. Il testimone della novità è passato ai 5S, che lo hanno agitato con la facilità derivante dal ruolo di opposizione e dalla scarsa cultura politica. Anche loro avranno presto il problema della credibilità.

Al di là di Renzi, però, c’è una questione più ampia che tocca il Partito democratico in quanto tale, configurando una vera e propria crisi di identità. Un partito che, a dieci anni dalla sua nascita, appare ancora un partito incompiuto. Il Pd derivava dall’esperienza dell’Ulivo, fondato nel 1995 e consolidatosi nelle elezioni del 1996. Nasceva quindi con un ritardo di più di dieci anni; un ritardo dovuto ad opposizioni e resistenze destinate a pesare per tutta la sua vita successiva. Queste resistenze, che hanno provocato le dimissioni di Veltroni nel 2008 e il ritorno indietro della segreteria Bersani, e infine le turbolenze della gestione Renzi, sono state e sono certamente legate ad ambizioni e rivalità personali; ma sarebbe un errore ridurle a questo. Alla base ci sono diversi orientamenti di cultura politica. La politica del Pd è apparsa sempre caratterizzata da difficoltà e incertezze, che qualcuno attribuisce alla "fusione fredda" tra tradizione comunista e tradizione popolare. Credo che questa sarebbe una lettura fondamentalmente sbagliata. Il punto è che entrambe quelle tradizioni erano deboli, vecchie, gravate da contraddizioni, e in conclusione poco riformiste. Entrambe accettarono la prospettiva della nuova forza politica più per necessità che per una vera scelta. E si industriarono a portare nella nuova botte il vino vecchio. Due esempi a caso: dopo dieci anni il Pd non è ancora riuscito a elaborare una linea coerente sulla giustizia o sulla scuola, due temi sensibili nella storia del centro democratico così come in quella della sinistra riformista. Per non parlare del lavoro: la riforma di Renzi è ancora sentita (nonostante buoni risultati concreti) da gran parte del corpo politico del Pd come un errore, anzi un tradimento, da revocare appena possibile. La mancanza di una elaborazione culturale nuova per un nuovo partito ha condotto alle oscillazioni e contraddizioni di cui siamo testimoni ogni giorno. Il Pd non ha ancora una cultura politica comune che possa riconoscere come propria. Oggi, dopo la grave sconfitta del 4 marzo, è forse alla sua ultima occasione. Non uscirà dalla sua crisi se non affronta un lavoro serio sulla cultura politica, per superare le ambiguità e i residui di prospettive ormai implausibili. Non servirà guardare indietro alle pur gloriose socialdemocrazie del secolo scorso: i concetti di base della politica socialdemocratica sono oggi da ridefinire dai fondamenti, nel quadro di un mondo totalmente cambiato.

La spinta riformatrice, e quindi la valorizzazione dei ceti produttivi e delle linee di sviluppo del Paese, deve accompagnarsi alla capacità di rispondere alla domanda di protezione che le elezioni hanno manifestato. Immigrazione, sicurezza, precarietà, sono temi sui quali bisogna elaborare una prospettiva politica nuova, capace di uscire dal miserabilismo e vittimismo, in Italia così diffusi. Ci vuole una sintesi che metta insieme le ragioni dei ceti più dinamici e quelle di chi è stato più colpito dalla crisi. Solo questa scommessa può portare fuori dalla marginalità e dalla subalternità alla retorica populista. Ma per far questo il partito, sia pure in forme nuove, va ricostruito, se si vuole ripristinare il rapporto con la società – o semplicemente con la realtà. In sintesi, il Pd ha bisogno di idee, cioè di pensiero e di organizzazione.

 

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