L’ampia analisi condotta da Carlo Trigilia sui motivi dello svuotamento elettorale subito dal Pd conferma ciò che era intuitivamente percepibile: che progressivamente il Pd si sia trasformato in un partito rassicurante per la porzione della società più abbiente e meno afflitta da incertezze sul futuro, ma con poco appeal per quella parte crescente della popolazione che vive il disagio della vita quotidiana, ha figli che trovano solo “lavoretti”, passa ore nei trasporti pubblici, sperimenta il degrado delle periferie o non ha speranza di miglioramento in futuro; soprattutto che è a contatto diretto con l’immigrazione e non ha strumenti culturali per dirigere altrimenti il proprio malcontento. D’altra parte, gli appelli del Partito erano intrisi di ottimismo, pieni di esaltazione dell’eccellenza, rivolti a dimostrare che le opportunità bastava coglierle.

Non è, tuttavia, una questione di comunicazione. Che l’humus democratico si fosse deteriorato era visibile a tutti. Dopo la diseducazione portata da due decenni connotati dalla figura di Berlusconi, il programma numero 1 avrebbe dovuto essere una buona dose di riqualificazione dello spirito pubblico: ridare vita e funzione ai corpi intermedi, promuovere la partecipazione in tutti gli ambiti in cui fosse possibile puntare su comitati di cittadini in funzione di implementazione e controllo delle decisioni pubbliche, promuovere consulte, dare trasparenza all’intera pubblica amministrazione, rivitalizzare il Cnel in funzione di effettiva utilità e rappresentanza categoriale, promuovere patti sociali, premiare ogni iniziativa dal basso di utilità pubblica, normare la vita democratica dei partiti e fare del Pd stesso una scuola di democrazia. Nessuno di questi indirizzi comportava l’abdicazione delle funzioni proprie del governo. Di tutto si aveva bisogno meno che della sollecitazione all’emotività, all’acclamazione, della mortificazione del Parlamento e la svalorizzazione della politica. Né hanno contribuito l’avversione ai sindacati, la Leopolda contrapposta al partito, l’ostilità al fisco, la mediocre selezione della classe dirigente, l’appoggio a inqualificabili potentati locali di partito, fondi a destra e sinistra invece del rafforzamento delle strutture pubbliche, premio alla fedeltà, disinvoltura nel riformare la costituzione. Se la destra ha la presa che ha è perché il tessuto democratico si è sfilacciato senza che vi sia stato un serio tentativo di ricostruirlo. Ma il deterioramento è anche quello avvenuto nel capitale culturale e formativo, se pesiamo che metà della popolazione italiana (e il 28% dei giovani tra i 25 e i 35 anni) non è andato oltre la terza media.

Non è certo Il bonus cultura a vincere la sfida, che dà un po’ una cifra del governo della passata legislatura, alla ricerca continua della “trovata” accattivante più che di una costruzione di lungo periodo. Proprio questo modo di concepire il rapporto con i problemi è la trasformazione più profonda subita dal Pd, risalente, tuttavia, alla sua nascita. Non un partito il cui riferimento è una società reale fatta di condizioni differenziate – e in cui il consenso è ricercato spaccato per spaccato sociale, entrando nel merito delle questioni e affrontandole – ma un partito alla ricerca del consenso sul piano dei giudizi razionali (secondo un canone di razionalità soggettivo), in una tipica impostazione da partito di opinione.

Tutto ciò non vuol dire che il Pd abbia perso qualsiasi connotazione di sinistra, perché in esso sono comunque vissute in tutte le componenti una recondita sensibilità (per lo meno verbale) per la condizione sociale e importanti retaggi di una cultura democratica. Né vuol dire che esso si sia identificato totalmente con quell’establishment che l’ha supportato e incoraggiato. Ma certo esso è rimasto esposto ad essere prigioniero della filosofia che quell’establishment esprimeva e che gli chiedeva di assumere, in una confluenza spontanea in nome delle ricette per la crescita. Confluente è il giudizio che per rendere dinamica l’economia fosse necessario affidarsi alla creazione – più estesa possibile – di un ambiente pro mercato e favorevole all’impresa (liberata da burocrazia, tasse, ostacoli sindacali, inefficienza, per definizione, del settore pubblico). Se l’assenza di ancoraggi, il mito della discontinuità, il nuovismo non portavano a una identità definita, certamente non portavano a sfidare la cultura dominante. Ma, in tal modo, la “razionalità” finiva per non essere neutra e recepita come tale prevalentemente dai settori sociali che potevano prendersi il lusso di convogliare solo domande di buona amministrazione e salvaguardia progressiva dell’esistente.

Probabilmente il Pd ha coltivato l’idea di poter mantenere una rendita di posizione nel centro degli schieramenti politici, ma avrebbe dovuto “sfondare” in almeno due direzioni: l’economia e il partito. La situazione del Paese era (ed è) troppo in bilico e troppo deteriorata (accrescendo le aree di sofferenza), perché il conglomerato di situazioni e domande che convoglia potesse mantenere al Pd un consenso vasto senza una robusta ripresa della crescita che ha stentato ad affermarsi e per la quale non vi era una ricetta. Nessuna delle risposte si è mostrata veramente efficace, pur in condizioni favorevoli di svalutazione dell’euro, crollo dei prezzi del petrolio, di politica espansiva della Bce e di ripresa internazionale. Il prestigio come formazione politica, poi, non è mai decollato né sul piano delle idee, né della prassi, né della reputazione dei suoi (spesso mediocri) gruppi dirigenti in sede locale.

Tutto questo penso sia alquanto noto (e da me trattato estesamente altrove, in un primo e in un secondo saggio). Eppure non è emerso in nessuna seria analisi condotta dal suo vertice sui motivi della sconfitta elettorale e della dilapidazione repentina di un capitale politico immenso. Per cui ora il partito si accinge, come se nulla fosse successo, a ripristinare i gazebi che sono la negazione di una vera discussione interna e di una guida collegiale, appartenendo a uno statuto che non prevede un congresso. Lì, ai gazebo, non può che aversi la solita contesa personalizzata, aperta ai cittadini di buona volontà e, sotto sotto, giocata su emozioni, simpatie e il confronto mediatico. Diverso è chiamare i militanti a pronunciarsi su linee politiche compiute e mozioni emendabili (e non componimenti d'occasione) che rappresentino ipotesi diverse, in cui in gioco vi sia il confronto fra culture politiche e la costruzione di una visione del Paese. Forse la riscrittura dello statuto è il primo insegnamento da trarre.

Le elezioni del 4 marzo hanno prodotto un secondo insegnamento, sanzionando definitivamente come fallimentare la strategia dello sfondamento a destra. Una strategia, concepita in nome di una diagnosi sbagliata: l’illusione che in Italia esista un elettorato moderato-liberale verso il quale allargare i confini del consenso, mantenendo anche l’elettorato tradizionale. Quei nuovi confini avrebbero dovuto estendersi non solo verso quell’elettorato “moderato” – in parte espresso nella lista Monti, e successivamente già riassorbito nel Pd – ma soprattutto verso chi si asteneva dal votare questo partito in quanto percepito come ideologico, post comunista e statalista, mentre poteva plaudire alla cancellazione di culture e tradizioni politiche. L’elettore “moderato” – che possiamo raffigurare in una certa borghesia intellettuale e professionale e nei ceti medi produttivi – in questo Paese è, tuttavia, tutt’altro che tale. È di fatto anti-istituzionale, anti-sindacale, anti-regolazione, anti-tasse, anti-intervento dello Stato. È stato pensato orfano della guida berlusconiana, ma appena ha ritrovato a destra un’offerta politica credibile l’ha afferrata. Inseguirlo vuol dire perdere una funzione pedagogica, che un partito deve sempre avere, e allontanare l’elettorato tradizionale.

Non so se oggi il Pd abbia preso atto di questo fallimento di “strategia” e tratto le conseguenze per il futuro. Una decisa virata a sinistra è ormai un pezzo di sopravvivenza e di distinzione identitaria (se possibile, di stampo socialista). Ma è difficile trovare un gruppo dirigente idoneo a perseguirla. Né c’è un offerta politica esterna a sinistra, data la scarsa consistenza mostrata dal gruppo dirigente di Leu. Escamotage verbali non servono e sono poco convincenti. È un’intera cultura politica che dovrebbe cambiare, ma il partito ha perso un rapporto con l’elaborazione culturale, con gli intellettuali, non ha un indirizzo programmatico che lo identifichi, non ha formazione politica all’interno (per quanto abusi impropriamente del termine); è perfino disabituato alla discussione. Tutto questo in una bivalenza di posizioni difficilmente scioglibile (specie ai gazebo) e che rischia di paralizzarlo, a meno di separazione dei destini o improvvise conversioni. “Ripartire dai territori” è una bella formula. Ma con chi, con quali quadri, con quali esperienze da consolidare e estendere, con quale rapporto anche embrionalmente avviato con le organizzazioni di massa? Con quale inventiva sociale? L’abbandono di qualche quadro capace di lavoro territoriale è forse la vera perdita avvenuta con la scissione di Leu. La strada di una ripresa è difficile. Eppure è obbligatorio intraprenderla. E non può non prevedere un cammino lungo che parta da piccole esperienze, le allarghi, faccia circolare senza paura le idee, valorizzi quei quadri, che ci sono, soprattutto giovani e già formati. Difficile, però, senza un chiarimento politico serio che arrivi a sciogliere il nodo di una moderna prospettiva socialista.

Ci sono poi altri insegnamenti che possono trarsi dal risultato elettorale. Direi che il voto può essere letto come una richiesta di protezione, di presenza dello Stato e di riequilibrio della situazione sociale. Non importa se gli elettori abbiano forse mal individuato i veicoli (fra cui è molto ambivalente l’offerta della Lega). Importa che per porsi in relazione con gli umori di cambiamento del Paese occorra farsi carico di queste domande. Ma come? Queste elezioni insegnano anche che nessun approccio declamatorio è ormai convincente. La partita posta su un piano squisitamente politico è persa. Il centro della scena sono i programmi di merito attraverso i quali sia decifrabile una visione del mondo e un indirizzo di intervento nella società italiana. Va da sé che alcune questioni debbano finire per assumere un valore simbolico ed essere un condensato di quella visione del mondo. Per la sinistra è una partita difficile, essendo partecipe di una visione più complessa del mondo. Ma questo non la esime dal muoversi per campagne verso la realizzazione di traguardi, che non siano improvvisazioni, ma un estratto da formulazioni compiute.

 

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