La pubblicazione dei dati Istat sul mercato del lavoro, all’inizio del mese, ha dato il via a una messe di commenti contraddittori. A chi si felicitava per il ritorno ai livelli di occupazione del 2008 (23 milioni di occupati), si è immediatamente opposto chi deplorava l’aumento del tasso di disoccupazione (+ 11,3%). Paradossalmente, entrambe le posizioni sono errate.L’aumento del tasso di disoccupazione in realtà segnala la sola novità sicuramente positiva degli ultimi dati, mentre l’aumento dell’occupazione nasconde una dinamica che nel lungo periodo dovrebbe preoccupare analisti e policy makers.

Ma perché l’aumento del tasso di disoccupazione sarebbe una buona notizia? Proprio perché avviene in presenza di un aumento dell’occupazione. Aumenta il numero di occupati, ma aumenta, e in misura maggiore, il numero di coloro che cercano un impiego. Lavoratori che la crisi aveva scoraggiato, e che erano usciti dal mercato del lavoro, vi fanno ritorno. Questo segnala che le famiglie italiane considerano, infine, che il peggio è passato, ed è in questo senso la migliore notizia che ci ha dato l’Istat. Non bisognerebbe mai dimenticare che il tasso di disoccupazione, a causa del fenomeno dei «lavoratori scoraggiati» che gonfiano o sgonfiano la forza lavoro, è un indicatore da analizzare con cautela (è interessante notare che, proprio per questo, l’International Labour Office conduce da anni una battaglia per migliorarne la qualità).

Ha dunque ragione chi si rallegra per il ritorno dell’occupazione ai livelli pre-crisi? Purtroppo no, il quadro disegnato dall’Istat è molto complesso, e con più ombre che luci. 

Per capire perché, si può partire da un altro dato: a dicembre 2016, il Pil italiano era ancora inferiore del 7% rispetto ai livelli pre-crisi. Questo vuol dire, quindi, che lo stesso numero di lavoratori producono oggi il 7% in meno di quello che producevano nel 2008. Abbiamo quindi ritrovato il lavoro, ma non la prosperità.

Cosa è successo in questi, ormai, quasi dieci anni di crisi? Due cose principalmente. La prima è che il numero di ore lavorate per dipendente (nelle imprese con più di 10 lavoratori) è diminuito, circa del 6%, tra il primo trimestre 2008 e il primo trimestre 2017. Un calo generalizzato, ma che ha penalizzato soprattutto i servizi (- 8,1%). La quota di part-time (nelle imprese più grandi, per cui l’Istat fornisce i dati) è aumentata dal 14% al 20,8% (dal 20,6% al 28,8% nei soli servizi), un aumento del part-time che sembra ultimamente accompagnarsi a un rallentamento dei contratti a tempo indeterminato. Ci dice, infatti, l’Istat che, nel periodo tra luglio 2016 e luglio 2017, dei 378 mila nuovi lavoratori dipendenti 286 mila sono a termine e solo 92 mila a tempo indeterminato.

Oltre a una diminuzione delle ore lavorate per addetto, la dinamica recente del mercato del lavoro racconta anche di un cambiamento della composizione settoriale, che ha un impatto (a breve e a lungo termine) sulla produttività del lavoro. Gianni Balduzzi su “Linkiesta” parte dall’apparente divaricazione tra i fondamentalisti dell’economia, che tornano a sorridere, e una percezione pubblica che rimane invece piuttosto negativa. E trova la risposta nella composizione settoriale dell’aumento dell’occupazione:

«Quello che sta accadendo dunque è tra le cause della percezione di una crisi ancora non finita, di una ripresa presente ancora solo sulla carta, ovvero un aumento, in alcuni casi anche consistente, di posti di lavoro proprio in ambiti in cui gli stipendi sono bassi o molto bassi, in cui a una crescita della produzione corrisponde un quasi identico aumento dell’occupazione perché non vi è quasi alcuna dinamica a livello di miglioramento della produttività. Sono settori a basso valore aggiunto, come il turismo o la ristorazione, a maggior ragione se dominati, come è soprattutto in Italia più che altrove, da realtà piccole. La conseguenza sono salari scarsi, precari, che rimangono tali negli anni perché la competenza specifica e l’appetibilità del lavoratore non crescono molto nel tempo».

L’occupazione, invece, continua a stagnare nei settori a più alto valore aggiunto, spesso esportatori, dove la ripresa dell’attività (che resta moderata) avviene grazie ad aumenti di produttività (e salari). L’occupazione cresce, quindi. Ma con essa le diseguaglianze salariali e la trasformazione della nostra economia in favore di servizi a bassa produttività e non suscettibili di trainare la crescita del Paese nel medio periodo.

Insomma, se lette tutte insieme, queste cifre ci raccontano una ripresa dell’occupazione fatta di «lavoretti», tendenzialmente precari, e per lo più concentrati in settori a bassa produttività e a basso salario. Anche se non è questa la sede per una valutazione approfondita del Jobs Act, per la quale si dovrà aspettare che l’economia ritrovi delle condizioni di normalità, è lecito sospettare che esso abbia contribuito non poco a questo deterioramento strutturale del mercato del lavoro. Un esito peraltro non sorprendente, visto che la filosofia complessiva delle riforme degli ultimi anni era proprio quella di averne «pochi, maledetti e subito» di posti di lavoro: aumentare l’occupazione a qualunque prezzo, compreso quello della precarietà.

Ma come trasformare questa «cattiva occupazione» in «buona occupazione»? Come ritrovare delle relazioni di lavoro stabili e di lunga durata, precondizioni per una crescita equilibrata di reddito e produttività? Come evitare un ulteriore aggravamento della diseguaglianza, foriero di squilibri macroeconomici oltre che socialmente inaccettabile? La risposta è una sola, ed è sempre la stessa. L’Italia deve ricominciare a crescere, a investire, a consumare. Fintantoché il tasso di crescita non tornerà stabilmente sopra al 2% annuo, sarà difficile che l’economia crei nuovi posti di lavoro. In tali condizioni ogni misura volta a flessibilizzare il mercato del lavoro non potrà che redistribuirlo, precarizzarlo, frazionarlo. Questo dovrebbe essere tenuto a mente non solo dai nostri politici, ma anche, Oltralpe, da Emmanuel Macron, che sembra voler seguire i passi di Matteo Renzi, investendo il suo notevole capitale politico in misure come la Loi travail, il cui successo sarà probabilmente molto limitato.

Come far uscire l’Italia dai vagoni di coda della crescita europea in cui rimane stabilmente dall’inizio degli anni 2000? Il problema è quello evocato sopra, di una scarsa produttività, che rende a sua volta l’investimento poco profittevole. Lucrezia Reichlin ha recentemente suggerito che per aumentare produttività e crescita potenziale, in un contesto in cui le risorse sono e rimarranno limitate, la strada maestra è l’investimento nel settore dell’istruzione, dove i ritardi accumulati dal nostro Paese cominciano ad avere effetti dirompenti, ad esempio sul tasso di disoccupazione giovanile, o anche sul numero dei giovani Neet, risorse perdute per la crescita futura del Paese. Ma questo ovviamente non basta. La qualità della spesa pubblica, la lotta a sprechi e a corruzione, sono fondamentali perché ogni programma di maggiori investimenti non si risolva in uno spreco colossale di risorse. Per anni si è creduto che per ridurre gli sprechi e la corruzione si dovesse «affamare la bestia», ridurre la spesa pubblica. È, ancora una volta, una strategia miope. L’austerità in Grecia ha portato al collasso la macchina statale, già in origine particolarmente inefficiente, e fatto ulteriormente esplodere l'economia informale. Sta a testimoniarlo il crollo del reddito potenziale, dopo anni di austerità e riforme. Anche da noi è difficile immaginare che chiudere i tribunali, rallentare l’informatizzazione della PA, ridurre il presidio sul territorio, possano portare, oltre ai risparmi di breve periodo, a più efficienza e a una rinnovata capacità di sostegno all’economia da parte del settore pubblico. Nella gestione delle finanze pubbliche, come già per il mercato del lavoro, «pochi maledetti e subito» comporta l’abdicare della politica al suo ruolo di sostegno dell’attività economica e della crescita di lungo periodo.

 

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