Prove generali in vista di settembre. Come già in Saarland e nello Schleswig-Holstein, anche nel Nordrhein-Westfalen (NRW, il Land di Colonia, Bonn e Düsseldorf) i conservatori si aggiudicano le elezioni per il Landtag, il Parlamento regionale, ottenendo quasi certamente la guida del prossimo governo del Paese: la Cdu di Armin Laschet guadagna quasi sette punti, attestandosi al 33%. Per il futuro governo sono ipotizzabili più soluzioni, per ora la più verosimile appare un’alleanza della Cdu con i soli liberali della Fdp (12,6%). L’affluenza al voto è stata di poco oltre il 65%, in crescita rispetto al 2012.

Per i socialdemocratici la sconfitta è palese (dal 39 al 31,2%, peggior risultato di sempre nel Land) – perdono infatti il governo guidato dal 2010 da Hannelore Kraft in coalizione con i Verdi – e ha ripercussioni molto rilevanti sul piano federale. E non potrebbe essere altrimenti: il NRW è il Land più popoloso della Germania (quasi 18 milioni di abitanti), con il Pil più elevato (21,3% sulla quota federale, ma nell’ultimo anno la crescita è rallentata) e con una rilevante tradizione rossa, ma anche afflitto da una serie di problemi, come ad esempio la disoccupazione (al 7,5%, mentre la media tedesca è del 5,8%) e la povertà, giunta a livelli molto più elevati e preoccupanti che nel resto del Paese. A tutto ciò la Spd aveva promesso di dare una risposta con il governo Kraft; gli elettori, invece, hanno bocciato la socialdemocrazia e i suoi velleitarismi: subito dopo il tracollo elettorale Kraft si è dimessa dalla presidenza del partito.

La Fdp di Christian Lindner (presidente federale della Fdp e capolista nel NRW, essendo originario di Wuppertal, vicino Düsseldorf) ottiene un ottimo risultato (+4%) e tutto lascia credere che a settembre il partito potrebbe rientrare nel Bundestag, lasciando così spiragli per un governo alternativo a quello della Grande coalizione tra Spd e Cdu-Csu. In difficoltà i Verdi (al 6,4% con una perdita di oltre cinque punti), mentre AfD entra in un altro Landtag (7,4%), confermando una certa stabilità in un momento complicato per il partito, diviso al suo interno tra litigiose correnti e impossibilitato a «sfruttare» l’emergenza dei rifugiati. Grande delusione per la Linke (4,9%, al di sotto di quanto ci si attendeva), che, seppur quasi raddoppi il risultato del 2012, non supera di un soffio la soglia di sbarramento e resta fuori dal Landtag: si conferma la tesi per la quale la crisi della socialdemocrazia non giova necessariamente alla Linke.

Il voto, comunque, appare influenzato in modo decisivo dalle elezioni federali di settembre e da una chiara preferenza dell’elettorato tedesco per i conservatori e, soprattutto, per Angela Merkel (quasi mezzo milione di elettori socialdemocratici del 2012 hanno scelto Cdu o Fdp). Ecco perché a questo punto c’è da chiedersi cosa non stia funzionando nella campagna elettorale condotta da Martin Schulz. Il candidato socialdemocratico è stato, allo stesso tempo, troppo e troppo poco.

Troppo sopravvalutato è stato il cosiddetto «effetto» Schulz: si trattava con tutta evidenza una vera e propria liberazione di tutto il partito per il ritiro di Sigmar Gabriel, vicecancelliere, oggi ministro degli Esteri, ed ex presidente del partito. La nomina di Schulz è stata, perciò, ben accolta soprattutto dai militanti e dai funzionari del partito, consci che Gabriel non avrebbe avuto alcuna possibilità contro Angela Merkel. Del resto l’ultimo vicecancelliere uscente che riuscì a sconfiggere un cancelliere in carica fu un certo Willy Brandt, e correva l’anno 1969.

Ma Schulz è stato anche troppo poco incisivo, incapace sinora di trasformare questa simpatia che aveva suscitato in mobilitazione politica. Schulz, privo di incarichi di governo e, perciò, teoricamente più libero (anche di criticare la cancelliera), avrebbe potuto sfruttare questa posizione cercando di proporre un’immagine nuova della socialdemocrazia. Ha preferito, invece, impegnarsi in una battaglia con la Linke sui guasti delle riforme di inizio 2000 (senza tuttavia mai accennare alla possibilità di un’alleanza con Linke e Verdi), e limitarsi a denunciare un aumento della povertà senza chiare che cosa intende fare per affrontare questo problema se non per brevi accenni a questioni tutto sommato marginali e molto tecniche.

Allo stesso tempo la Linke si è detta insoddisfatta delle valutazioni di Schulz, attribuendo ad Agenda 2010 molti più vizi originari di quelli indicati dal candidato cancelliere socialdemocratico, finendo tuttavia trascinata in una discussione che ricorda vagamente quella avvenuta anni fa quando i due partiti si fecero una concorrenza durissima, senza grandi benefici per entrambi.

A quattro mesi dalle elezioni federali i due grandi partiti, Cdu e Spd, non hanno ancora presentato un programma elettorale, tuttavia rappresentano oltre il 60% dell’elettorato, segno che non è venuta meno la fiducia dei tedeschi per le Volksparteien. Per la Cdu si tratta di un segnale per le prime avvisaglie di conflitti interni ben più consistenti: questa è l’ultima campagna elettorale di Angela Merkel e, prima o poi, inizierà lo scontro nel partito per la sua successione.

Più complicata è invece la situazione di Spd, Linke e Verdi. Questi ultimi sembrano non aver tratto particolare giovamento dalla scelta fatta ormai diversi anni fa di proporsi quale partner per ogni tipo di coalizione, sia essa guidata dalla Cdu o dai socialdemocratici: l’alternativa verde può essere perseguita indipendentemente dal colore dominante nella coalizione. Il partito ha da quel momento perso consensi, che difficilmente riuscirà a recuperare nel breve periodo.

A frenare la Linke sembra una sorta di complesso d’inferiorità nei confronti dei più forti socialdemocratici: una campagna elettorale dai toni quasi interamente contro la socialdemocrazia e contro le sue riforme d’inizio 2000 ma, per ora, del tutto incapace di definire proposte autonome e innovative.

Diverso il caso della socialdemocrazia che sembra incapace di proporsi come nuova forza politica della Germania riunificata, di quella Repubblica di Berlino che pure ha governato tra il 1998 e il 2005. Contrariamente ad altre tesi, chi scrive non è convinto che la proposta politica difetti di radicalità: alla Spd manca la consapevolezza della centralità strategica della Germania post ’89 e la capacità di coniugare gli interessi nazionali in un programma compiuto che non punti a imporli agli altri Paesi – come nella classica impostazione di realpolitik – ma sappia integrarli con le esigenze che arrivano dagli altri Stati del continente, nell’esempio, certo non privo di limiti ma comunque interessante ed efficace, di Brandt.

In politica interna, poi, il partito appare una forza opaca e priva di riferimenti: la costante denuncia della povertà che attanaglia il Paese sembra più appropriata per un’organizzazione di carità o di beneficenza, mentre la socialdemocrazia dovrebbe rappresentare con maggiore decisione una determinata parte della popolazione e rivendicare un nuovo patto sociale invece di continuare a mostrare la propria responsabilità nel governare. Ovvero: più scuole (soprattutto più insegnati, la cui assenza è una piaga in molte zone del Paese), più investimenti nelle infrastrutture strategiche, centralità della casa e nuove forme di tutela per gli inquilini (in un Paese che vive un’impennata dei costi di affitto), lotta alla precarietà (e, cioè, centralità del contratto a tempo indeterminato e tutela concreta dei lavoratori autonomi di seconda generazione). C’è da sperare che la presentazione del programma elettorale possa rappresentare una svolta: ma a questo punto è più che probabile essere nuovamente delusi.