Siamo proprio sicuri che quello di cui abbiamo bisogno sia una «democrazia capace di decidere», come da ultimo ha scritto Michele Salvati su questo sito il 5 marzo? Prendere decisioni purchessia non mi pare un grande obiettivo. Il problema è quello di prendere buone decisioni. Dal mio punto di vista sono buone quelle decisioni che sono in grado di provocare, almeno in parte (non pretendo troppo), i cambiamenti annunciati e senza troppi danni collaterali. Se adottiamo questo criterio, dobbiamo ammettere che la maggioranza delle decisioni che vengono prese dal sistema politico italiano sono cattive decisioni, perché per esempio stabiliscono meccanismi attuativi cervellotici e pertanto non riescono a produrre alcunché, perché mettono in moto processi di riorganizzazione colossali che alla fine partoriscono topolini (è il caso delle varie riforme universitarie), perché vogliono colpire simbolicamente l’opinione pubblica con misure di scarsissima efficacia (è il caso dell’aumento delle pene per la corruzione), oppure perché dimostrano di non conoscere a sufficienza i problemi su cui intervengono (è il caso degli effetti della riforma Fornero sugli esodati o della legge Del Rio che sta affaticando inutilmente alcune migliaia di amministratori locali per tappare i buchi clamorosi che la stessa legge ha creato). Le decisioni vengono prese, ma non funzionano quasi mai.

Come si fanno a prendere buone decisioni? Poiché non c’è nessuno in grado di conoscere tutto e di diradare l’incertezza che avvolge comunque gli effetti delle politiche pubbliche, l’unica possibilità è quella di mobilitare tutti i gruppi, gli stakeholders, i cittadini che ne saranno coinvolti. Più è ampio lo spettro degli interessi, dei punti di vista e dei saperi che si esprimono, più è probabile che si riducano i margini di errore. Inoltre in questo modo gli interessi particolaristici saranno costretti a fare i conti con altri interessi, opposti ai loro. Sembra una cosa macchinosa e difficile, ma non lo è: di strumenti per organizzare l’ascolto, la discussione o la negoziazione entro tempi ragionevoli e in forma inclusiva ce ne sono parecchi.A me pare evidente, invece, che il rafforzamento del governo o della leadership come quello apprezzato da Michele Salvati tenda a aumentare in modo esponenziale i rischi di cattive decisioni, basate su teorie approssimative, sul desiderio di far colpo o sulla scarsa conoscenza delle situazioni su cui si vorrebbe intervenire. Soprattutto, e mi sembra il caso di Renzi, quando il leader si circonda di yes-men (e yes-women) e non ascolta nessun altro. Non è vero che nelle altre democrazie si governa a colpi di decisioni da parte del leader di turno: ci sono tradizioni di ascolto e consultazione, più o meno istituzionalizzate; le riforme sono precedute da libri bianchi aperti all’apporto di tutti. D’altronde è meglio perdere qualche mese per ascoltare e per capire di che cosa si sta parlando, che varare in fretta e furia decisioni che ingarbuglieranno ancora di più la situazione per gli anni a venire e che dovranno essere continuamente rimaneggiate. La tortura normativa a cui sono sottoposti cittadini e imprese ha la sua origine nella frettolosa superficialità dei decisori.

Chi sostiene che il problema principale è la «capacità di decidere», come fanno molti economisti, parte dall’idea che sappiamo tutti benissimo che cosa dovrebbe essere fatto, ma che non lo facciamo soltanto perché ci sono corporazioni, gruppi di interesse, percettori di rendite che mettono i bastoni tra le ruote. Se li si toglie di mezzo concentrando il potere nel leader, la via non può che essere spianata. Ma si tratta di una diagnosi senza fondamento. Non esiste nessuna one best way. Nessuno può pretendere di sapere che cosa va fatto. Abbiamo sempre a disposizione delle alternative e chi compie la scelta ha l’onere di argomentare in pubblico perché quella decisione porterà effetti benefici. Renzi non lo fa mai. Non si degna di entrare nel merito delle obiezioni degli oppositori, ma si limita a squalificarle parlando di gufi, di rosiconi, di gettoni del telefono o di rullini fotografici, come se l’one best way esistesse inconfutabilmente e fosse, ovviamente, la sua. Ma senza uno straccio di confronto pubblico è molto improbabile che si riescano ad imbroccare le misure giuste. A differenza di molti costituzionalisti, io dell’«uomo solo al comando» non temo tanto la deriva autoritaria, quanto la deriva – diciamo così – cognitiva.

Con questo non dobbiamo rassegnarci al confronto senza fine con i potentati che si arrogano poteri di veto. Ma tra la paralisi provocata dal consenso a tutti i costi e l’affidamento a un leader tuttofare (e perciò necessariamente superficiale e ignorante) ci sarà pure una via di mezzo. È un equilibrio difficile da trovare, ma meglio non accontentarsi delle cose troppo facili.