Gli antirenziani della sinistra Pd dovrebbero anzitutto mettersi d’accordo con se stessi. Perché è difficile far quadrare le loro critiche contro “un Parlamento di nominati” con quelle contro Renzi dittatore, che mortifica il Parlamento impedendogli di discutere a fondo le proposte elaborate dal governo. Se il gruppo parlamentare Pd non è un’espressione della società civile – degli elettori di sinistra, nel caso – autonoma e indipendente dalle “nomine” del partito, per quale motivo, in Parlamento, esso dovrebbe avere la precedenza sulle decisioni di un governo guidato dal leader del partito, e legittimate da una stragrande maggioranza negli organi direttivi del partito stesso? Perché preferire i “nominati” al “nominante”?

Per favore, dicano come stanno realmente le cose: che, nonostante le pseudo primarie, in questo Parlamento i parlamentari erano stati nominati dalla precedente leadership del partito, prima della rivoluzione renziana. Dopo la rivoluzione una buona parte di essi si è accodata al carro del vincitore – per opportunismo o per genuino mutamento di convinzioni, qui non rileva – ma ne è restata una parte consistente che si oppone frontalmente a Renzi e agli orientamenti del suo governo: questa parte contrasta la legislazione che il governo sta cercando di far passare, continuando in Parlamento la battaglia che ha perso nel partito. Una battaglia politica, non una battaglia su sacri principi costituzionali che devono essere da tutti condivisi. Una battaglia non diversa – anche se motivata da idee politiche opposte – da quella che conducono Brunetta o la Meloni o Salvini o Grillo: anch’essi accusano Renzi di tendenze cesaristiche, di essere un dittatore. Proprio come la sinistra del Pd. Naturalmente gli antirenziani cercano di sostenere che la loro battaglia è motivata dai sacri princìpi della democrazia parlamentare, secondo i quali è il Parlamento a essere depositario del potere legislativo. Nella nostra Costituzione formale è sicuramente così, e così è stato in quella materiale finché è durata la Repubblica dei partiti: il grande libro di Pietro Scoppola andrebbe tenuto sempre sul comodino. Anche allora i parlamentari erano “nominati” dalle diverse fazioni del partito e le preferenze, che in astratto introducevano un elemento di scelta popolare, diedero luogo a tali scandali e disfunzioni che vennero abolite a furor di popolo, con un referendum che aprì una crepa irrimediabile nella Prima Repubblica. Dopo il suo crollo, dopo Tangentopoli, la nostra  “Costituzione più bella del mondo” è in stato di flusso, il suo funzionamento materiale staccandosi sempre di più da quello formale. E la necessità di riforme costituzionali, anche più coraggiose di quelle che Renzi sta tentando, è sempre più evidente.

Evidente a tutti tranne che ad alcuni grandi professori di diritto – a Gustavo Zagrebelski in particolare: si vedano due suoi recenti articoli, su «la Repubblica» del 25 febbraio e su «il Fatto quotidiano» del 28 febbraio – ai quali la sinistra Pd si rivolge per aver conforto nella sua battaglia. Battaglia politica, ribadisco, perché non credo che agli antirenziani interessino molto i grandi principi costituzionali. Se di questi veramente si interessassero, farebbero meglio a rivolgersi a studiosi di politica comparata, che li illuminino su come funzionano le buone democrazie dei Paesi avanzati, e come in esse un elemento di leadership personale, nel partito e nel governo, siano indispensabili se si vuole creare una democrazia capace di decidere. È  l’incapacità di decidere, non la presenza di leader capaci di farlo, quella che condanna una democrazia prima all’inefficienza e al declino, poi a rischi ancor maggiori.

 

p.s. Sulla rivista cartacea, nel numero 6/2014 un mio articolo ha aperto un dibattito su Renzi, che si è sviluppato nel primo numero di quest’anno e vedrà una prima conclusione nel secondo, con altri interventi, una mia replica e uno straordinario contributo di Mauro Calise. Buona lettura.