Sia chiaro: ‘democristiano’ non può e non vuole essere una connotazione negativa; designa semmai il moderatismo politico unito a un perfetto know how di potere. Né ambizioso può valere come insulto – se non, ipocritamente, in bocca ad Antonio nel Giulio Cesare –, ché anzi l’ambizione personale è il sale della politica; piuttosto, si vuole  sottolineare che se Matteo Renzi ha molto sale (non è sciocco, come si dice dalle sue parti), non è ancora chiaro quale pietanza ne sia insaporita. Quale piatto, insomma, si appresta a servirci il nuovo aspirante capo-cuoco, pur bravo maneggiatore di spezie. La sua indeterminatezza è tanto affascinante quanto ambigua, e non ha in sé alcuna caratteristica ascrivibile alla sinistra, comunque questa possa essere declinata. Eppoi, Renzi non è neppure un moderato per scelta – come invece è Letta –; lo è per necessità, perché vuole parlare a una platea così vasta da essere costretto a lanciare messaggi indeterminati e generici, messaggi in cui la forma prevale di gran lunga sul contenuto. La forma è l’entusiasmo e lo sdegno, con un po’ di vittimismo e molta sfrontatezza; è l’acuto che strappa l’applauso, è la mossa che ammicca e conquista, il luccichio dello slogan furbetto. Il contenuto è: il cambiamento è necessario, e io sono il cambiamento; le vecchie oligarchie, le vecchie correnti, hanno fallito e stanno distruggendo l’Italia con la loro incapacità politica, mentre la soluzione sono io, con la mia corrente che è una non-corrente perché le sostituirà tutte. E non per un conflitto di idee, perché le mie idee sono più forti; sì, perché io sono più forte, perché ho dalla mia la giovinezza (è vero, beato lui), la novità (non è vero, ma non importa), e ho i voti perché ho fatto innamorare mezza Italia dicendo agli italiani quello che vogliono sentirsi dire (è vero, soprattutto dopo i silenzi e i vaneggiamenti dei  vecchi oligarchi, dalle cui parole e dalle cui azioni gli italiani si sono sentiti respinti, rifiutati). Il moderatismo generico coesiste con un forte espressionismo comunicativo.

Insomma, abbiamo un leader carismatico, che, come tutti quelli come lui, esprime discontinuità, e presenta come prima proposta politica se stesso, la propria novità, la propria sintonia con i ‘nostri’; e la propria ostilità a ‘loro’, i vecchi, i traditori (in questo caso, del Pd, che ‘loro’ hanno sequestrato e che ‘lui’ restituirà al popolo, suo legittimo proprietario; ma forse il concetto va esteso a tutta l’Italia, che attraverso lui viene restituita a se stessa). In certe circostanze, i leader carismatici si propongono come lo strumento di un’Idea che grazie a loro si afferma nella Storia; in questo caso l’Idea coincide con il leader stesso: non c’è nessuno che voti Renzi per adesione al pallido blairismo un po’ vintage di cui è portatore; chi lo vota vuole proprio lui come persona, perché cacci gli altri, perché rivolti il partito come un calzino e ne faccia una macchina di consenso a disposizione del leader. 

Non vi è dubbio che questa avventura personale sorretta da un entusiasmo collettivo faccia di Renzi un prodotto estremo della personalizzazione della politica, che è seguita al partito-apparato; e che la sua sia una forma avanzata di politica-spettacolo, di democrazia del pubblico, di trasformazione della partecipazione in acclamazione (per il popolo) e in séguito (per i gruppi dirigenti). E non v’è dubbio che in questo essere indeterminato e battagliero al contempo, il sindaco esprima un forte contenuto politico in senso proprio, manifesti cioè un’energia e un entusiasmo che hanno il sapore della speranza e della vittoria. E che quindi, infine, sia un prodotto dell’evoluzione storica adatto a un ambiente, la politica italiana, che per catturare il voto di cittadini sempre più distratti e ostili, e ridotti a ‘pubblico’ sta producendo solo leader populistici e demagogici – Grillo e Berlusconi, rispetto ai quali Renzi è certamente più in sintonia con le esigenze qualitative della democrazia costituzionale.

Con queste caratteristiche, Renzi si candida a vincere, a prendersi il partito e l’Italia; un popolo stanco e deluso vorrà provare anche questa novità, questa emozione. E poiché è in odore di vittoria, è sempre più popolare: per carrierismo, o per cinismo, o per poterlo poi condizionare e indirizzare, o per rabbia verso chi incarna un passato di sconfitte e di delusioni, o per sincera adesione allo Spirito del tempo, sarà votato e forse vincerà se il congressone ci sarà, e forse anche le elezioni anticipate, quando si terranno. La distinzione, che gli avversari gli offrono, fra leader di partito e leader della coalizione sarà da lui rifiutata come ridicola: l’essere leader di partito gli serve per vincere le elezioni – dato che il partito non serve ad altro, e che se lascia il partito a Cuperlo poi gli potrebbe toccare di lasciare Palazzo Chigi a Letta.

L’alternativa, che cioè il partito è una struttura complessa e articolata, che organizza una parte della società (non un tutto indistinto), che analizza questioni, compone o confronta interessi, elabora proposte, entra in dialettica col governo, l’alternativa di un partito che ri-civilizza la società, resa incivile dalla frammentazione  atomistica del neoliberismo e dal ventennio neo-corporativo di Berlusconi, e che è al contempo una forza che bilancia altri poteri, altrimenti sempre vincenti, e  una struttura capace di analizzare le contraddizioni sociali, di elaborare progetti di sviluppo umano, di favorire la partecipazione a un destino comune di emancipazione e di progresso; questa alternativa, lunga complessa e responsabile, è scartata a priori. Una macchina da guerra fa la guerra, non intraprende la lunga marcia che oggi sarebbe necessaria per rifare la politica e l’Italia; la semplificazione del blitz, e non la fatica del concetto e della partecipazione, la superficialità e non la radicalità, sono l’arma segreta (ma non tanto) di Renzi – insieme al diffuso disprezzo per l’attuale ceto politico. Chi lo vota perché vuole finalmente vincere sta combattendo Berlusconi con dosi omeopatiche (piccole, in verità) di berlusconismo; lo sa, ma il sapore della vittoria è irresistibile.

Ma nulla sta scritto, come diceva Lawrence d’Arabia. Potrebbe  anche accadere – anche se ora non pare probabile – che chi non riesce a riconoscersi in Renzi riesca a unirsi, a riconoscere i propri errori; che insomma il vero cambiamento sarebbe uscire dallo spettacolo e dalla propaganda; che sarebbe cioè fare della politica non l’espressione della rabbia o della passione, ma un agire collettivo e collegiale che passa attraverso un partito certamente del tutto rinnovato, ma non trasformato nella piattaforma per il successo di un leader, sì nello spazio in cui la politica è ancora affare di molti, e non di pochi o di uno soltanto.