Genova si avvicina alle elezioni amministrative alla sua maniera, fra il convulso e il distratto. In effetti, quante volte è andata sulle prime pagine dei giornali, solo in questo millennio, per cose che, a ripensarci, potevano capitare solo qui? Pensate solo al G8, e se per caso qualcuno non lo ricorda, allora si guardi pure Diaz, il film, con la violenza spettacolarizzata e la scuola del macello ricostruita a Bucarest. Oppure pensate all’ennesima alluvione d’autunno, con i morti del rio Fereggiano e Marta Vincenzi, il sindaco uscente, che si gioca la rielezione chiedendo scusa con una settimana buona di ritardo. Oppure ancora pensate, solo una settimana fa, allo psicodramma di Marassi, con i tifosi che pretendono e ottengono l’umiliazione del Genoa, quaranta minuti di demenziale, livido, iperbolico mugugno. La terra ha tremato tre volte negli ultimi mesi, sarà un caso?

Capitale di niente eppure Superba, città extraterritoriale stretta fra l’autostrada e il mare, unica metropoli del nord dove la sinistra governa ininterrottamente da vent’anni e anzi, con un’interruzione, dagli anni Settanta, Genova è un microcosmo rappresentativo solo di sé, troppo umorale e disincantata, in realtà, per accettare le regole della politica nazionale, internazionale o globale, eppure, o forse proprio per questo, capacissima di esportare personaggi irripetibili come altrettante parolacce, da Faber De Andrè a Don Gallo, da Beppe Grillo a Francesco Belsito, sì proprio lui, il tesoriere leghista già vicepresidente di Finmeccanica, e poi uno si stupisce se i cantieri sono alla canna del gas. Questa Genova va al voto, se ci va, in ordine sparso, silenziosa o smoccolando, e comunque nelle stesse percentuali con cui Mario Draghi concorda con i suoi critici, il cinquanta, forse il cinquantacinque per cento.

Così, è fatale che al voto la città offra candidati anomali. Il non genovese Pierluigi Vinai, pidiellino variante Opus Dei, che Claudio Scajola non può appoggiare troppo altrimenti lo impallina definitivamente, à la Berlusconi, già adesso non passa il quindici per cento nei sondaggi. Il senatore Enrico Musso, berlusconiano inquieto e oggi inevitabilmente pentito, ufficialmente in quota Terzo Polo ma capace di attrarre consensi trasversali, se del caso anche nell’apparato del Pd, sempre buoni da spendere al ballottaggio cui quasi certamente arriverà, accreditato com’è di oltre il venti per cento. Infine il Marchese Rosso Marco Doria, sicuro vincitore al primo turno ma dopo chissà, con quel suo genovesissimo basso profilo e gli ancor più genovesi dubbi sulle grandi scelte per il futuro.

Il futuro, ecco, sembra l’ultima cosa cui si pensa, in quest’aprile appiccicaticcio. Non ci pensano i grillini, già contenti se, come al solito, riescono a fare lo sgambetto alla sinistra, né gli intellettuali, divisi fra gli imperativi dell’ideologia e le sirene della tecnocrazia, meno che mai i preti, a loro volta tentati dall’appello al cielo ma attenti ai segnali provenienti dalle supreme stanze vaticane. Il problema vero, però, è che sembrano non pensarci i ragazzi, mi sbaglierò ma loro non ci pensano proprio, la primavera ha già i colori dell’estate e forse sarà anche normale, ma è come se per loro tutto si decidesse lontano, molto lontano di qui.