La lettera scarlatta, opera di Nathaniel Hawthorne pubblicata con grande successo nel 1850, inizia con una scena sconvolgente. Hester, la giovane donna protagonista del romanzo, viene mostrata al popolo di Boston su un patibolo. Qual è la sua colpa? Aver dato alla luce una bambina, commettendo adulterio per amore di un uomo di cui non vuole rivelare il nome. Hester finirà per subire l’ostracismo sociale, isolata ed emarginata dalla sua comunità, portando cucito sul petto il marchio della vergogna: una "A", scarlatta, come "adultera". Intorno a lei si formerà così un vuoto fatto di parole e di discorsi denigratori: le chiacchiere delle comari, per le quali l’ostracismo non è una pena sufficiente e vorrebbero che Hester venisse uccisa o indotta al suicidio.

L’io narrante, che ritrova i documenti e le testimonianze di questa storia, dice che quando toccò la "A" ricamata, nascosta tra le carte, provò "un calore bruciante... come se la lettera non fosse di panno rosso, ma di ferro arroventato fino a diventare rosso". Che cosa c’entrano il bigottismo e la rigidità di una comunità puritana del Seicento con il nostro oggi permissivo, sessualmente emancipato, individualizzato nelle scelte morali e affettive? C’entrano eccome.

Oggi, esattamente come allora, gruppi e comunità, non necessariamente di tipo religioso, quando si sentono minacciati dal diverso (che sia l’omosessuale, lo straniero, il disabile o semplicemente il ragazzo timido o la ragazza ritenuta troppo brutta o troppo carina) lo puniscono con la derisione, la spoliazione dell’identità, il discredito. Il risultato è lo stesso inflitto a Hester: l’esclusione dal gruppo di appartenenza, l’isolamento e l’ostracismo sociale. La sofferenza che queste dinamiche generano è la stessa: la disistima, la solitudine, l’incomprensione che può portare alla depressione e perfino al suicidio.

I mezzi utilizzati si sono però evoluti molto da allora. La lettera scarlatta, per il fatto di non essere più un pezzo di stoffa cucito sul vestito, non per questo è meno violenta e bruciante. Nel mondo digitale dei social network, frequentato da oltre l’80% dei giovani e degli adolescenti, essa è sempre più spesso sostituita da violazioni del profilo della vittima, dal furto e dalla messa in circolazione di e-mail private, di fotografie o filmati denigratori, realizzati a volte tramite montaggi e falsificazioni. Secondo una ricerca recente del Miur, si tratta di un fenomeno tutt’altro che marginale: più di un quarto degli studenti subisce o compie atti di prevaricazione via web.

La stampa quotidiana si è occupata nei giorni e nelle settimane passate di numerosi casi drammatici, come quello del sedicenne romano che si è buttato dalla finestra di una scuola alla periferia sud della capitale, mercoledì 29 maggio. O come quello del quindicenne che si è suicidato perché preso in giro sul web dai compagni in quanto ritenuto gay, nel novembre scorso. O, ancora, la fine tragica della quattordicenne di Novara che, a gennaio, si è tolta la vita gettandosi dal balcone perché perseguitata da coetanei sui social network. Si è coniato un nuovo termine per definire questo fenomeno criminale, il "cyberbullismo", che appare davvero poco adeguato a rappresentarlo. Mentre il bullismo opera da sempre in forme preoccupanti, ma circoscritte e identificabili, più facilmente controllabili da genitori e insegnanti, le persecuzioni via web hanno la caratteristica di essere perlopiù anonime, di coinvolgere una platea infinita di osservatori, esponendo la "vittima" a una gogna continua e difficilmente controllabile da parte degli adulti.

Le parole sono importanti. "Cyberbullismo" va a braccetto con considerazioni tutto sommato blande (del genere "sono solo bravate" di ragazzi incoscienti) o di tipo meramente psicologico (le vittime sono ragazzi fragili emotivamente). In realtà si tratta di un fenomeno collettivo che genera da un lato conformismo gregario, dall’altro ostracismo ed esclusione sociale. Se i giovani non capiscono quali conseguenze possono avere tali atti, anche se a volte lo sanno benissimo, è perché l'omofobia e la sopraffazione del più debole sono idee assai radicate nella mentalità collettiva. È lo stesso humus da cui nasce la violenza sulle donne di maschi giovani e meno giovani: una cultura regressiva che ha dimenticato che tutti hanno lo stesso diritto di essere rispettati e di scegliere la propria strada, ovunque vada la corrente.