Chi abbia visitato Firenze nell’ultimo periodo si sarà accorto di una nuova componente del paesaggio commerciale filtrato dalle vetrine del centro storico, vale a dire la proliferazione di esercizi di ristorazione – non soltanto ristoranti e trattorie, ma anche pizzerie, bar e caffè – che espongono, all’interno di apposite celle frigorifere vetrate, grandi e vistosi tagli di carne. Nella maggior parte dei casi, si tratta di porzioni di lombata di manzo da cui si prepara la famosa bistecca “alla fiorentina”, una delle pietanze maggiormente associate all’immagine di Firenze e considerata un’esperienza degustativa da non perdere nella visita alla città. Tali esposizioni di carne sono accompagnate da visibili campagne pubblicitarie sia statiche (cartelloni, volantini, insegne) sia dinamiche (car advertising) in cui è facile imbattersi tra le vie del centro. La “messa in scena” del cibo come strategia di promozione commerciale non rappresenta una novità, ma non c’è dubbio che in questo caso l’effetto sia particolarmente efficace, o scioccante, a seconda dei punti di vista. Non tanto o non solo per l’indiscutibile impatto estetico delle vetrine e per la pervasività con la quale la pratica si è diffusa tra gli operatori, ma anche per il particolare oggetto esposto, considerato a tutti gli effetti una componente del patrimonio culturale della città.

Non a caso, nell’aprile del 2019 la Giunta ha dato seguito a un’idea lanciata personalmente dal sindaco Dario Nardella e ha deliberato l’avvio dell’iter di candidatura della “fiorentina” nella Lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’Unesco, raccogliendo l’adesione della Regione Toscana e dell’Accademia della Fiorentina, un’istituzione finalizzata a promuovere e a far apprezzare “la costata del vitello adulto, tagliata alla maniera dei Beccai fiorentini  secondo i canoni della più autentica tradizione”. È quindi possibile che, dopo il lungo percorso che porta dalla candidatura alla nomina, l’arte della preparazione della bistecca vada ad aggiungersi ad altri patrimoni immateriali italiani, tra i quali già figura – per rimanere in tema alimentare – l’Arte dei pizzaiuoli napoletani. A essere infatti oggetto di candidatura non è il prodotto in sé, bensì il sapere legato alla sua preparazione, in quanto espressione della tradizione e della cultura gastronomica locali.

Le iniziative di tutela e valorizzazione del patrimonio culturale e le strategie di commercializzazione di quello stesso patrimonio sono al centro di Urban meatification, un progetto di ricerca artistico-visuale sviluppato dal Laboratorio di Geografia sociale dell’Università di Firenze in collaborazione con la fotografa Laura Portinaro (a cui dobbiamo le foto che illustrano questo articolo). Il progetto, che si pone in continuità con un più ampio filone di studio sui rapporti tra cibo, turismo e trasformazioni urbane intitolato History to eat, utilizza l’immagine fotografica per portare in superficie le aporie connaturate ai processi di patrimonializzazione nelle città interessate dal turismo di massa. Infatti, se da un lato tali processi si prefiggono di riconoscere e tutelare le componenti “autentiche” del patrimonio materiale e immateriale, dall’altro lato si rendono funzionali alla loro mercificazione e al loro inserimento nelle logiche dell’economia turistica e di consumo della città a essa connesse.

Se la candidatura Unesco risponde all’obiettivo di celebrare un prodotto di eccellenza del territorio e, allo stesso tempo, di individuare forme di regolamentazione della denominazione “fiorentina” (a fronte di utilizzi commerciali talvolta eccessivamente disinvolti, se non decisamente ingannevoli); le strategie di esposizione della carne esprimono in modo crudo ed efficace il meccanismo di continua reinvenzione e spettacolarizzazione dell’offerta turistica, proprio attraverso lo sfruttamento del patrimonio culturale.

Allo stesso modo, che riguardino un singolo bene come la carne o più in generale un intero sito, come il centro storico cittadino, le politiche di tutela e valorizzazione del patrimonio diventano parte costitutiva dei processi di turisticizzazione: anche quando perseguono auspicabili obiettivi di “protezione” di un bene o di un insieme di beni culturali, si rendono funzionali alla “messa in scena” della città, alla sua trasformazione progressiva in uno spazio-vetrina, alla definizione di un immaginario e di un brand urbano legato al richiamo simbolico della cultura. Tutela e valorizzazione, consumo e turistificazione sono infatti tendenze che si compenetrano e si alimentano a vicenda, secondo una logica che persegue al contempo la finalità di tutelare il patrimonio e quella di renderlo sempre più fruibile e attrattivo, riproducendo le aspettative di una domanda che cerca sempre di più l’“autentico” nelle sue varie e diverse accezioni.

In questo senso il cibo, e la carne in particolare, rappresentano una perfetta metafora del consumo di città messo in pratica dall’economia turistica, contribuendo a ridefinire “le forme della città” in termini spaziali, estetici e culturali: esso partecipa, cioè, a un più generalizzato processo di trasformazione – in atto in moltissimi centri europei e non solo, ma che nelle città d’arte trova una particolare intensità – che vede la destinazione degli spazi centrali e dei quartieri storici a funzioni prevalenti di loisir, ricreative e commerciali, rivolte prevalentemente ai turisti e in cui le funzioni residenziali stabili sono sempre più marginali. Firenze è al proposito un caso eloquente, tanto che la sua Amministrazione comunale è recentemente stata costretta ad arginare la moltiplicazione delle attività di ristorazione ‒ attenuando il carattere di “mangificio”, per citare lo stesso termine usato dalla Giunta – attraverso la sospensione per tre anni di nuove aperture nel centro storico Unesco. L’Amministrazione guidata da Nardella è altresì in cerca di soluzioni per intervenire nel settore degli affitti a breve termine, a fronte di un’offerta di appartamenti sulla piattaforma Airbnb tra le più alte d’Italia.

La saldatura tra simili dinamiche ha, infatti, profonde ripercussioni sulla dimensione delle politiche locali: messe di fronte alla necessità di contenere gli effetti più macroscopici del consumo turistico della città, le amministrazioni hanno margini di manovra e strumenti evidentemente limitati, e talvolta contraddittori. Inevitabilmente, la scelta ricade su interventi puntuali, settoriali, e di natura temporanea, che non hanno la capacità né la possibilità di limitare, contenere, o regolare processi e flussi che hanno una chiara dimensione trasversale e una genesi sovra-locale. Paradossalmente, nel tentativo di contenere tali processi, misure dichiaratamente intese a tutelare l’integrità del patrimonio possono anzi generare l’effetto inverso, vale a dire conformare ulteriormente l’immagine del luogo alle esigenze e alle richieste della domanda, consolidando l’idea di autenticità associata ai luoghi e rendendo le aree storiche spazi sempre più “a misura” del turista.