In sintesi, la riforma costituzionale del 2001 ha molto ampliato competenze e poteri delle Regioni a statuto ordinario (nuovo art. 117): il bilancio di questo ventennio è ancora da scrivere, ma non è certamente privo di criticità. La nuova Costituzione prevede anche (nuovo art. 116) che le Regioni a statuto ordinario possano richiedere ulteriori forme di autonomia nell’ambito di un elenco molto ampio di materie, accompagnate dalle relative risorse economiche. È questa l’autonomia regionale differenziata: differente fra regioni, fra materie. Bene subito chiarire che alle Regioni è lecito chiedere quel che vogliono, ma per Governo e Parlamento non vi è alcun obbligo di concederlo. Esecutivo e legislativo rappresentano gli interessi di tutti i cittadini italiani e devono tenerne conto nelle loro decisioni.

Parliamo di quasi tutti i più importanti ambiti di intervento pubblico, a cominciare dalla scuola, e proseguendo con le infrastrutture, l’energia, l’ambiente, la cultura e molto altro

L’articolo 116 non è stato mai attuato. Ma a partire dal 2017 è stato oggetto di una decisa campagna politica partita dal Veneto. Quel Consiglio Regionale ha infatti indetto un referendum consultivo (con una domanda assai scarna: “volete voi maggiore autonomia”), accompagnato dalla richiesta non di una ma di tutte le materie teoricamente possibili e da un corrispondente, ingentissimo trasferimento di gettito fiscale dalle casse dello Stato a quelle regionali. Parliamo di quasi tutti i più importanti ambiti di intervento pubblico, a cominciare dalla scuola, e proseguendo con le infrastrutture, l’energia, l’ambiente, la cultura. E molto, molto altro. E del principio che la maggior parte del gettito fiscale sia lasciato sui territori dove è prodotto, come fossero Stati indipendenti, e non più trasferito alla fiscalità generale. Alla Regione sarebbero dovute andare molte più risorse di quelle che lo Stato spende, nel territorio regionale, nelle stesse materie; ovviamente sottraendole alla complessiva spesa nazionale nel resto del Paese (da cui la definizione di “secessione dei ricchi”). All’iniziativa veneta si è subito affiancata la Lombardia. I referendum dell’ottobre 2017 hanno visto una partecipazione ampia in Veneto, più modesta in Lombardia. La sfida era lanciata. Alle due regioni si è poi ulteriormente affiancata l’Emilia-Romagna, che giova ricordare essere Regione governata dal Partito democratico: circostanza politicamente della massima importanza. Lì non si è tenuto un referendum; le richieste economiche sono state più sfumate (ma la Regione non ha mai obiettato a quelle lombardo-venete), il catalogo delle richieste è appena più ristretto (non viene chiesta la regionalizzazione dell’istruzione). Ma lo schieramento è sempre stato a tre punte: le Amministrazioni delle tre regioni più forti del Paese hanno marciato unite.

Lo schieramento a favore è sempre stato a tre punte: le Amministrazioni delle tre regioni più forti del Paese – Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna – hanno marciato unite

Vi è stata prima una clamorosa e improvvisa apertura del governo Gentiloni pochi giorni prima delle elezioni 2018, ad opera di esponenti del Pd, che prevedeva la possibilità che i territori più ricchi trattenessero parte del proprio gettito fiscale. Le richieste delle tre regioni sono andate poi vicinissime a concretizzarsi con il governo Conte I, il cui programma dava la massima priorità al tema. La materia era nella mani delle ministra leghista veneta Stefani, certamente non controparte ma diretta fiancheggiatrice del suo presidente di Regione, e pronta a portare in approvazione in Consiglio dei Ministri una totale, e blindata, accettazione delle richieste regionali, con un passaggio parlamentare puramente formale. Rimandando tutti i fondamentali dettagli tecnici ed economici a commissioni paritetiche, nominate per metà dal leghista veneto Zaia e per metà dalla leghista veneta Stefani. Grazie ai dubbi e alle perplessità dei 5 Stelle, e nonostante il clamoroso silenzio sul tema del Pd non si è arrivati in fondo. La pandemia ha congelato la questione. Il governo Conte II la ha affidata al ministro Boccia, che ha seguito un percorso diverso (la redazione di una “legge quadro”), senza esito. E lo stesso è successo con il governo Draghi (ministra Gelmini). Intanto altre amministrazioni regionali del Centro Nord si sono affiancate alle prime tre.

Ora lo scenario è cambiato. Nel programma dello schieramento di destra, apparentemente lanciata verso il successo, la realizzazione dell’autonomia regionale differenziata appare a chiare lettere. Una poderosa coalizione di interessi, politici e territoriali, spinge il progetto.

Che cosa c’è che non va? (1) Le richieste sono estesissime. Che competenze volete? Tutte!, rispondono le regioni. Ma perché dovrebbe essere meglio trasferire il patrimonio infrastrutturale a quelle regioni o dare loro nuove competenze in tante materie? A questa fondamentale domanda non c’è mai risposta: nonostante sia stato messo a durissima prova dalla pandemia, l’atto di fede è che le regioni funzionano meglio dello Stato, e per i cittadini questo sia un vantaggio. Circostanze entrambe tutte da provare. Piuttosto – e questo spiega tantissimo - è certamente un vantaggio per i politici e gli amministratori regionali, con estesi nuovi poteri di decisione e intermediazione. (2) Si dice: ma per alcune competenze sarebbe opportuno un decentramento amministrativo. Va bene: ma se così fosse, perché solo per alcune regioni e non per tutte? E se si rivede l’equilibrio Stato-regioni, non sarebbe meglio ripensare ad un complessivo nuovo assetto, alla luce dell’esperienza degli ultimi vent’anni, riaccentrando parallelamente altre competenze? (3) Quali caratteristiche della singola regione giustificano il trasferimento della specifica competenza? Anche a questa importante domanda non c’è risposta. A tutti va concesso tutto quel che chiedono, senza particolare motivazione. Ma questo significa che tutte le Regioni possono ottenere e quindi chiederanno praticamente tutte le competenze (date alle prime, non potranno essere negate alle altre), e questo trasformerà radicalmente gli assetti di potere in Italia. Il ceto politico-amministrativo regionale diverrà ancor più rilevante. Cambierà sostanzialmente l’articolo 117 ma questo avverrà senza il necessario percorso di revisione costituzionale. (4) D’altra parte, come funzionerebbero le politiche pubbliche in un’Italia arlecchinesca con due province autonome, quattro regioni a statuto speciale, alcune ad autonomia rafforzata e le altre “normali”? Non c’è nessuna riflessione in merito, ma è lecita (anzi necessaria) una grande preoccupazione.

Davvero vogliamo regionalizzare la scuola, differenziare i programmi e far dipendere gli insegnanti dagli assessori? Differenziare le normative ambientali ed energetiche quando stiamo provando a costruire politiche europee? Cedere la proprietà del tratto lombardo dell’Autostrada del Sole al Pirellone?

Tutto questo senza parlare dei soldi, che sono motivazione importantissima di tutta l’iniziativa. Le iniziali richieste lombardo-venete, sovversive dei principi costituzionali, sembravano archiviate. Ma non bisogna mai dare nulla per scontato, specie con la nuova maggioranza che si annuncia. Il diavolo, come si dice, si nasconde nei dettagli: in meccanismi complessi, in processi che acquistano rilevanza con il passar del tempo: e le attuali proposte in merito sono oscure. I cittadini rigidamente tagliati fuori da ogni informazione che consenta loro di farsi una opinione. Eppure, si tratta di scelte che condizionano i fondamentali principi di uguaglianza fra i cittadini italiani; una disponibilità di servizi pubblici che dovrebbe essere – in uno Stato unitario come l’Italia – indipendente dal luogo in cui temporaneamente risiedono, soggetta a “livelli essenziali delle prestazioni”, come recita la Costituzione, uguali ovunque. In una cornice normativa, quella del federalismo fiscale previsto sempre dalla riforma del 2001, rimasta volutamente, largamente inattuata. Come mostra un recente contributo della Banca d’Italia, pur con il linguaggio cauto che caratterizza questa istituzione, nel caso dei Comuni la distorta o mancata applicazione dei nuovi principi costituzionali sul federalismo fiscale ha scavato sempre più un solco a danno dei cittadini del Sud, dove i Comuni, come meno risorse, sono in grado di garantire molti meno servizi.

Anche in questo ambito il nuovo secolo è stato segnato dall’”effetto San Matteo”; come recita il Vangelo, “a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”.

Staremo a vedere. Negli ultimi mesi dell’anno si raccoglieranno le firme per una proposta di legge di riforma costituzionale di iniziativa popolare promossa da Massimo Villone e da un gruppo di docenti (fra i quali il sottoscritto) per rivedere gli articoli 116 e 117 della Costituzione. Ma intanto il quadro politico vede tante forze schierate a favore di questa autonomia regionale differenziata così clamorosamente estesa, altre silenti o conniventi, e nessuna esplicitamente contraria. Con la strategia di mascherare il tema come modifica tecnica, di portare la scarna discussione su questioni vaghe e generali (“autonomia” e “responsabilità”), di approvare il tutto con la massima rapidità, senza alcun dibattito parlamentare e certamente senza informare i cittadini sui rilevantissimi cambiamenti che si produrranno.

I sostenitori della secessione dei ricchi sono forti, e pronti all’attacco finale.

 

Nota: Per chi volesse saperne di più, rimandiamo a un volumetto del 2019, scaricabile gratuitamente, e alle riflessioni offerte su questa rivista da chi scrive nel 2017 (qui, qui e qui), nel 2018 e nel 2019 (qui, qui e qui).