Cosa succede se al vertice di un’istituzione arriva un profeta? La domanda mi era venuta in mente subito dopo il 13 marzo 2013 e in questi giorni, a due anni e mezzo dall’elezione di Bergoglio, mi torna di nuovo. Cosa succede se un profeta va al potere? Un bello scompiglio, quantomeno. Lo abbiamo visto in questo Sinodo dei vescovi dove il vescovo di Roma non solo non ha fatto l’accentratore, ma ha insistito sulla necessità del decentramento, sovvertendo uno schema fossilizzato negli anni e condiviso tanto dentro quanto fuori la Chiesa (ecco perché la distinzione tra “Sinodo reale” e “Sinodo mediatico” non mi convince).

Roma non può e non deve decidere sempre su tutto, ha fatto capire Francesco, soprattutto quando le Chiese locali camminano più spedite (è il caso dell’ecologia, come riconosce l’Enciclica Laudato si’) oppure quando la diversità di usi e costumi è tale da sconsigliare una formula troppo generale. E questo è proprio il caso del Sinodo sulla famiglia che, in attesa che il papa stesso tiri le somme con un documento (in gergo, esortazione post-Sinodale, come la Familiaris consortio di Giovanni Paolo II), ha fatto propria una parola d’ordine bergogliana, il discernimento caso per caso, senza però mettere nero su bianco modifiche sostanziali alla disciplina.

In fondo il vero guadagno di questo Sinodo sta nel metodo, nel processo di riforma che si è avviato. Finalmente, cinquant’anni dopo l’intuizione di Paolo VI di togliere dalle ragnatele l’antico istituto Sinodale per dare continuità al Concilio, i vescovi hanno fatto sul serio. Stavolta non ci sono stati discorsi preconfezionati, votazioni scontate e sbadigli diffusi, non c’è stata messinscena. Anzi, al netto di qualche meschinità il confronto tra i padri Sinodali è stato schietto e serrato e ognuno si è messo in gioco, alcuni addirittura hanno parlato in prima persona (l’unico stile convincente, ha fatto notare l’arcivescovo di Vienna, Schönborn). Certo, resta il fatto che il Sinodo dei vescovi è un organo consultivo e non deliberativo e quindi, in questo senso, non risponde all’affermazione di principio del Concilio Vaticano II, cioè che tutti i vescovi del mondo, certo sempre insieme e sotto il papa, hanno un potere pieno nel governo della Chiesa. Ma in attesa di un cambiamento strutturale da oggi possiamo essere un po’ meno tiepidi di Karl Rahner il quale, in una conferenza del 1982, vedeva nei Sinodi dei vescovi non più di “un modesto contributo a una qualche maggiore democratizzazione”.

In effetti, con un personaggio dalla stoffa profetica come Bergoglio ci possiamo aspettare di più: che il centro e la periferia si scambino di posto, che il papato si decentri, si metta di lato e le Chiese locali vengano rimesse al centro. Un paradosso provvidenziale, alla portata di un uomo venuto dalla fine del mondo. Può succedere, sta già succedendo. Al Sinodo Francesco ha messo in gioco ancora una volta il ministero petrino, facendo capire che non è una proprietà privata ma un tesoro di tutta la Chiesa – non solo del cattolicesimo romano – e che comunque l’autorità, per chi crede al Vangelo, si declina nel servizio. Così, oltre a suscitare simpatia in chiunque sia stufo marcio del potere come sopraffazione, ha stanato quelli tra i suoi, e non sono pochi, che stanno ancora in trincea.

Su questo aspetto, in realtà, qualcuno all’inizio dei lavori, anzi ancor prima che cominciassero, ha giocato sporco: la famigerata lettera (parlarsi, no?) di alcuni prelati insinuava che l’andamento del Sinodo fosse stato deciso a tavolino e agitava davanti a Bergoglio uno spettro, quello dell’autoritarismo, che lo insegue dagli anni di gioventù. D’altra parte un profeta se non puoi affrontarlo direttamente, togliendolo di mezzo, puoi sempre provare a boicottarlo. Ecco allora messaggi obliqui, outing a orologeria, falsi scoop. Una melassa che cerca di invischiare ciò che non può edulcorare. Le parole salate di un profeta, però, sono le uniche all’altezza dei tempi. E magari tutti profetassero, nel popolo di Dio! Il primo ad augurarselo è il vescovo di Roma che ben conosce la Scrittura. Certo, questo fa impazzire chi vuole “indottrinare il Vangelo in pietre morte da scagliare contro gli altri”, per usare le sue parole. Poco importa. In un domani non troppo lontano il Sinodo non sarà più solo dei vescovi ma di tutto il popolo di Dio: i laici, uomini e donne, non saranno più semplici uditori ma protagonisti con il potere che deriva loro dal battesimo. E forse anche i teologi, dopo anni di emarginazione se non di inquisizione, avranno voce in capitolo.

Va bene – domanderà qualcuno – ma sui contenuti di questo Sinodo, sulla famiglia? Che cosa è venuto fuori, alla fine della fiera? “Per tutti noi la parola famiglia non suona più come prima del Sinodo, al punto che in essa troviamo già il riassunto della sua vocazione e il significato di tutto il cammino Sinodale”, ha detto Francesco nel discorso di chiusura. Un impegno che si può provare a tradurre così: prima ancora che ripensare la famiglia, la Chiesa d’ora in poi vuole ripensare da famiglia, vuole rimettere al centro i legami fondamentali, gli affetti quotidiani alla luce del Vangelo cui sono stati finalmente restituiti primato e cittadinanza: si evangelizza con il Vangelo e gli uomini, tutti, sono chiamati a misurarsi su quello. Il resto – e cioè le norme, la disciplina (e non la falsa alternativa dottrina/pastorale) – viene di conseguenza e comunque non può diventare un’ossessione. Ecco perché la famiglia non è uno dei tanti temi di questo pontificato ma l’ambiente vitale in cui prende corpo. È lo stile familiare di Francesco che fa la differenza, che suscita tanta simpatia e tante resistenze. Uno scompiglio salutare, forse una rivoluzione. In nome del popolo di Dio.