L’avevano descritta come «l’elezione più noiosa del mondo». Già questo avrebbe dovuto metterci sull’avviso. Da qualche tempo, infatti, le Moire si divertono a spiazzare il senso comune con risultati elettorali che sono stati di volta in volta descritti come «impossibili», «impensabili», «irrazionali» o «folli». Non si può affermare che il successo elettorale della AfD nelle elezioni per il rinnovo del Bundestag sia paragonabile alla vittoria del «sì» al referendum per la Brexit, o a quella di Donald Trump nelle presidenziali statunitensi. Non c’è dubbio, tuttavia, che l’ingresso di 94 parlamentari di una forza politica di destra, nazionalista, che mette in discussione i dogmi su cui si è costruita l’identità politica della Germania nel secondo dopoguerra, potrebbe avere conseguenze storiche. Certo, la Cdu-Csu rimane il primo partito, ma perde 65 seggi, scendendo al 33% dei consensi, suo peggior risultato di sempre. Mai così male anche la Spd, la socialdemocrazia tedesca, che perde 40 seggi, scendendo a un livello di consenso che non ha paragoni nella storia recente del partito, ed evoca per la più grande forza della sinistra tedesca i momenti drammatici degli anni precedenti all’ultima guerra.

Uno smottamento così importante avrà certamente conseguenze significative negli equilibri politici tedeschi. Un primo segnale di turbolenza c’è stato già nelle prime ore con l’annuncio, da parte del candidato socialdemocratico alla cancelleria Martin Schulz, che il suo partito non prenderà più parte a una grande coalizione guidata da Angela Merkel. Possiamo immaginare che, a caldo, abbia prevalso tra i dirigenti l’opinione per cui il calo dei consensi della Spd sia dovuto essenzialmente al fatto che il partito sarebbe apparso al proprio elettorato di riferimento come troppo appiattito sulle posizioni politiche, e in particolare sulla linea economica, dei cristianodemocratici. Se questa lettura del voto si affermasse, potrebbe condurre a un ripensamento della piattaforma programmatica del partito, e forse anche all’apertura di un rapporto di collaborazione con la sinistra radicale della Linke, che in questa elezione ha guadagnato consensi (5 seggi in più rispetto alla precedente legislatura). Anche in Germania, quindi, potrebbe esserci un fenomeno paragonabile a quello cui abbiamo assistito nel Regno Unito: un partito della sinistra storica spinto da una serie di sconfitte elettorali a rimettere in discussione gli orientamenti degli ultimi decenni per avviarsi verso posizioni più radicali.

Va comunque osservato che anche all’interno del mondo socialdemocratico non sono mancate voci critiche rispetto al modo in cui è stata impostata la campagna elettorale del partito. In particolare, vale la pena di sottolineare che c’è chi ha sostenuto che scegliere la giustizia sociale come tema di fondo sia stato poco efficace in un Paese che avverte questo problema meno di altri.

Per i tedeschi, così si potrebbe riassumere questa lettura, in questo momento non è la sicurezza economica il problema cruciale. Semmai a essere in primo piano è la percezione di un’insicurezza di altro tipo, legata all’erosione dell’identità nazionale, cui i partiti tradizionali faticano comprensibilmente a dare risposte articolate per via della storia del Paese. In un certo senso cristianodemocratici e socialdemocratici si sono fatti garanti, dopo la guerra, di un equilibrio istituzionale e culturale della Germania che non era pensato per un mondo non più bipolare. Oggi la Germania si trova chiamata dalla realtà del proprio successo economico, dal proprio ruolo al cuore del processo di integrazione europea e dalla mancanza di alternative credibili, a giocare un ruolo egemone. Ciò avviene in una fase di instabilità in cui è facile che il timore per l’incertezza spinga la classe media ad assumere posizioni isolazioniste, di rifiuto di un mondo che appare sempre più minaccioso.

Nella nuova fase che si apre le capacità di leadership di Angela Merkel verranno messe seriamente alla prova. Se la scelta della Spd di chiamarsi fuori dalla coalizione evita almeno l’imbarazzo di una AfD primo partito di opposizione nel Bundestag, rimane il grande problema di come comporre una maggioranza di governo. Allo stato attuale la soluzione più probabile, ma forse semplicemente l’unica politicamente possibile, è quella che i tedeschi chiamano la maggioranza «giamaicana», per via dei colori associati ai tre partiti che potrebbero comporla, Cdu-Csu/Fdp/Grüne. Una prospettiva che, a quel che si dice, ha fatto correre nei giorni scorsi un brivido nella schiena del Presidente francese Macron. La sua politica di rilancio di un’Europa forte, che intervenga di più a colmare gli squilibri distributivi, potrebbe essere ostacolata seriamente dalla presenza dei liberali al governo. L’altro interrogativo è quello della «questione migranti». Un accenno al tema da parte di Angela Merkel nel corso delle prime dichiarazioni dopo l’annuncio del risultato elettorale ha fatto pensare a una revisione della linea di apertura del passato recente. Anche perché, a torto o a ragione, c’è una percezione diffusa che una parte dei consensi che sono andati alla destra siano in uscita dal tradizionale elettorato del centro cristianodemocratico.

Non molto tempo fa gli europeisti amavano dire che procedere nel processo di unificazione è come andare in bicicletta: non puoi fermarti se vuoi stare in equilibrio. Da tempo ormai si avvertono scricchiolii nel telaio, le ruote sono un po’ sgonfie, e il ciclista è visibilmente affaticato e via via sempre più scomposto nella pedalata. Da oggi siamo anche certi che la salita sarà lunga.

 

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