La Sicilia come “laboratorio”, luogo in cui sperimentare nuovi e più avanzati equilibri politici e di governo? O, per converso, la Sicilia come “continente” in cui “tutto cambia affinché nulla cambi”? O ancora come realtà “ibrida”, per riprendere una suggestione di Raimondo Catanzaro dei primi anni Ottanta, in cui vecchio e nuovo si combinano e si sovrappongono in forme inusitate e talvolta sorprendenti? Le elezioni di domenica 5 novembre forniscono indizi, se non proprio prove, a sostegno di questa terza interpretazione.

L’effetto meccanico più rilevante di queste elezioni è costituito dalla vittoria del candidato del centrodestra, Nello Musumeci, con 830.821 voti (poco meno del 40%), non certo un outsider della politica siciliana. La sua affermazione va segnalata innanzi tutto per l’entità. Con un distacco d 5,2 punti troviamo il più diretto competitore (Giancarlo Cancelleri del M5S) e addirittura con oltre 21 punti Fabrizio Micari, il candidato dell’ex partito di governo, il Pd. Soprattutto, Musumeci guadagna oltre 200.000 voti rispetto a Rosario Crocetta, il governatore uscente, che nel 2012 si fermò al 30,5%. Ma è il dato politico che va sottolineato.

La Sicilia, dal dopoguerra fino alle elezioni del 2012, ha una storia di egemonia centrista, con la Dc “condannata a governare”, per usare l’espressione di Aldo Moro, fatta eccezione per la parentesi del “milazzismo” (1959-1961). Il sistema siciliano a partito dominante, la Dc, appunto, sopravvisse fino al 1993. Da allora si è avuta la formazione di un sistema a coalizione dominante, di centrodestra, durato fino al 2012. Nel decennio precedente si sono succeduti dei governi centristi guidati da due presidenti con molte cose in comune: Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo. Entrambi si sono formati negli ambienti dei salesiani e quindi della Dc isolana, entrambi sono transitati all’Udc (Lombardo avrebbe tentato la strada dell’autonomismo) e, infine, entrambi hanno visto l’esperienza politica interrotta da vicende giudiziarie.

La prima vera e propria frattura nella classe politica di governo siciliana è invece rappresentata dall’elezione di Crocetta nel 2012, nel contesto di quella che sembrava la irresistibile crisi politica di Silvio Berlusconi e della ricerca da parte del centrosinistra, storicamente debole nell’isola ed escluso dal governo (con la breve parentesi del governo del Ds Capodicasa, 1998-99), di una sponda per vincere le elezioni. In quell’occasione la lista di Crocetta, “Il Megafono”, funzionò da ponte per i transfughi centristi. Con l’elezione di Musumeci la Sicilia ritorna al centrodestra, che si ripresenta con una coalizione larga, ma con un equilibrio più spostato a destra. Dal lato del governo si ha, quindi, un effetto di polarizzazione del quadro politico.  

Sul versante dei rapporti tra le forze politiche troviamo elementi di discontinuità più marcati. Il M5S, già primo partito all’Assemblea regionale siciliana, si riconferma tale. Ottiene quasi 12 punti percentuali in più rispetto al 2012, arrivando quasi alla soglia del 27% (con 19 seggi su 70). L’ondata di protesta del 2012 non si è affatto esaurita, sembra anzi conservare ancora una notevole forza, al punto da distanziare di gran lunga tutte le altre liste prese singolarmente: Fi si ferma al 16,4%, Fdl+Lega arriva al 5,6% (ma andrebbe anche considerata la lista personale di Musumeci, che ottiene il 6%). Sul campo avverso, il Pd balza al 13% (un risultato non molto diverso da quello del 2012: 13,4%, liste di appoggio a parte) mentre Ap, del ministro Alfano, non superara la soglia di sbarramento del 5%. Traguardo che invece raggiunge la sinistra (con la lista Cento passi). I dati di lungo periodo, però, ci dicono che la débâcle del centrosinistra non è solo da attribuire alla scissione interna al Pd. Questa certo conta, ma soprattutto conta la debolezza della sinistra siciliana (a partire dal Pci). Conta anche la costruzione della coalizione, che adesso perde il grosso dell’Udc a favore del centrodestra, mentre si inverte il flusso di molti esponenti della classe politica isolana.

Il dato nuovo è invece lo strutturarsi di una offerta di protesta. Le ondate di protesta sono un evento tutt’altro che inusitato nella storia dell’isola. Basti pensare al milazzismo, al voto al Msi nei primi anni Settanta, al successo della Rete di Leoluca Orlando a fine anni Ottanta - primi Novanta (che faceva parlare Pietro Barcellona di “opposizione intra-sistemica”). Tutti fenomeni intensi, ma di breve durata. L’affermazione di Berlusconi negli anni Novanta, per quanto contenga anche elementi di protesta, va considerata più come una “transizione egemonica” che come una risposta antisistemica. La nuova sfida arriva nel 2012 dall’esterno, e da non professionisti della politica, con il M5S. Questo inoltre, a distanza di cinque anni, si conferma come primo partito, tanto più dove tradizionalmente era forte la sinistra (come in provincia di Ragusa). Così, anche sul versante dell’opposizione si assiste a un effetto polarizzazione, in uno scenario che resta di elevata frammentazione politica (ben 9 liste hanno ottenuto seggi all’Ars).

Gli effetti della doppia polarizzazione e della frammentazione partitica si completano se guardiamo al voto ad personam. La competizione del 5 novembre si è giocata su due tavoli: quello dell’elezione del presidente (solo Cancelleri mostra un’elevata capacità di attrazione esterna alla lista) e quello dei candidati con la preferenza unica. La personalizzazione in grande (per il presidente) viene trainata dalla personalizzazione in piccolo (dei campioni delle preferenze). Tutte le liste funzionano come macchine per la raccolta dei voti ai candidati. Ciò vale specialmente per i partiti di centrosinistra: il tasso di preferenza della lista per Micari e di Alternativa popolare è pari al 96%, mentre la lista che sostiene Musumeci arriva al 92% (la Lista idea Sicilia degli autonomisti sfiora il 97%). Tra le liste principali il Pd è all’89%, la lista FdI-Lega all’88%. Forza Italia un po’ più distaccata è all’80%. Al 70% troviamo la lista Cento Passi. Mentre il partito fanalino di coda è il M5S, con appena il 57,7%, dove l’appeal di protesta e i simboli collettivi prevalgono sulle gare individuali. Per il resto, nonostante molti neoriformatori tendano a dimenticarlo, il voto di preferenza aumenta la competizione interna con due rischi potenziali: il successo di candidati “impresentabili”, comunque campioni delle preferenze; l'accelerazione della crisi dei partiti quali soggetti collettivi (non è un caso che prevale nelle liste personali). Viene confermata l’immagine di Gaetano Mosca per cui “non è l’elettore che sceglie, ma è il candidato che si fa scegliere”. L’offerta crea la propria domanda.

Infine, l’exit elettorale in Sicilia è stato sempre elevato. Più alto della media nazionale, ma meno di quella meridionale. I siciliani si astengono molto di più alle politiche che alle amministrative, mentre le elezioni per l’Ars stanno nel mezzo. Se tra il 1947 e il 1991 la media di astenuti è stata di poco meno del 19%, per contro, tra il 1996 e il 2017, è arrivata addirittura al 42%. Mentre nelle ultime due tornate i non partecipanti hanno raggiunto quota 53%. Si tratta di un livello di oltre 30 punti più elevato rispetto alla media storica, che ha finito per ribaltare gerarchie territoriali: con Messina e Catania ora in testa nell’affluenza (accompagnate da trend elevati nelle preferenze).  

Il quadro che emerge dalle elezioni di domenica scorsa è, dunque, critico. Crollo della “lealtà” ai partiti tradizionali e sostituzione con “lealtà individuali”; crescita del peso della “voce” con un effetto di doppia radicalizzazione a livello di governo e di opposizione; tutto ciò mentre “l’uscita” dal mercato elettorale ha raggiunto e superato il tetto del 50%. Tale situazione è resa ancor più problematica dal sistema di governo: difficoltà di costituire e conservare maggioranze stabili, ricorso al voto segreto come regola di funzionamento dell’Ars e moltiplicazione dei veto players.  Ne consegue una “incapacità addestrata” a risolvere i problemi di policy (a partire dalla crisi fiscale della Regione) e uno scadimento della qualità della democrazia. Questi paiono essere gli effetti di lungo periodo sui quali converrebbe spostare l’attenzione.

 

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