La scelta del Partito democratico di inserire nei punti non negoziabili la menzione del “pieno riconoscimento della democrazia rappresentativa” può essere letta in molti modi. Il primo, e forse più ovvio, è la volontà di contrapporsi tanto al mito della democrazia diretta che sarebbe resa possibile dalle tecnologie digitali quanto al ritorno in auge della democrazia plebiscitaria legata all’uso spregiudicato dei social network. Entrambe queste tendenze sono figlie dell’illusione che sia possibile, anzi che sia doveroso, cancellare nei sistemi politici tutte le forme di intermediazione in nome del diritto di ciascuno ad avere parte attiva e diretta nella formazione delle decisioni politiche.

Se si avesse ancora qualche passione per la storia politica si saprebbe che si tratta di un dibattito che data alle origini stesse del sistema costituzionale occidentale. Quella che per noi era una inaccettabile restrizione del diritto di voto a un numero limitato di soggetti derivava dalla teoria della rappresentanza: dovevano intervenire nel processo politico solo coloro che erano al vertice di sistemi di collegamento delle persone, perché essi non votavano in quanto singoli, ma in quanto rappresentanti di quelle entità. L’esempio più semplice era la restrizione del diritto elettorale ai padri di famiglia, poiché tutti coloro che si trovavano sotto la loro autorità (mogli, donne, membri non capaci di costituire in proprio un nucleo familiare, servitori) venivano “rappresentati” da questi. Poi ovviamente, come sempre, dietro le teorie astratte stanno gli interessi concreti, sicché si passò alla rivendicazione “un uomo, un voto” (e infine anche la donna venne considerata un uomo).

Oggi nessuno si sognerebbe di mettere in discussione quel principio e anzi lo si vuole continuamente espandere: vedi le proposte di abbassare continuamente il limite di età per l’ammissione alle urne, proprio in virtù del principio che l’elettore non deve essere in grado di “rappresentare”, cosa che suppone un qualche percorso di formazione (scolastica, per esperienza di vita ecc.), ma semplicemente ha un diritto a “dire la sua”.

In realtà sarebbe arrivato il momento di riconquistare consapevolezza dello spessore che ha il concetto di “democrazia rappresentativa”. Banalmente essa non significa un sistema politico che realizza la rappresentazione di se stesso consentendo a chiunque di “calcare la scena pubblica”. I due termini sono impegnativi e vanno compresi in modo appropriato. “Democrazia” significa affidare la sovranità, o, se preferite, il potere, al popolo, ma essendo consapevoli che il popolo non è una realtà che esiste in natura, bensì una costruzione del sistema politico e comunitario. Per questo la democrazia ha necessità di essere “rappresentata”, cioè di basarsi su un meccanismo che contempera l’esigenza di tramutare le esperienze e i bisogni individuali in esperienze e bisogni collettivi (e, se possibile, comunitari) con l’esigenza di esibire la rappresentazione di questo lavoro collettivo nel suo concreto farsi, perché così educa il popolo a riconoscersi.

È per questo che il Parlamento era divenuto, negli anni del suo fulgore, il perno delle democrazie rappresentative, perché era il luogo in cui in contemporanea si operava per trasformare i bisogni e le istanze settoriali in qualcosa di collettivo (nazionale, di classe, nel segno dell’interesse generale ecc.) e rappresentando questo lavoro continuo si metteva in scena la democrazia consentendo al popolo di identificarsi con essa.

Oggi non è semplice ricondurre la percezione del nostro Parlamento a questo modello ideale, ma vale anche per quelli di tutti gli Stati attuali organizzati sul modello costituzionale. Il lavoro dei parlamentari è svalutato, tanto che è seppellito sotto l’epiteto della “poltrona”, e il numero dei suoi membri viene valutato solo in termini di costi che gravano sul bilancio pubblico. Naturalmente ci sono ragioni per spiegare come questo sia accaduto: non da ultimo perché il Parlamento non è in grado di svolgere il lavoro di intermediazione fra le domande sociali e l’intervento pubblico, superato in questo dal fatto che il governo cerca di svolgere da solo questo lavoro. Le elezioni vengono vissute più che altro come momento per scegliere un governo, e al massimo più opposizioni che possano negoziare con lui. La cosiddetta società civile dispone di molti mezzi per intervenire dall’esterno sul processo di formazione della decisione politica e dunque l’opera dei parlamentari non è più percepita come veramente rappresentativa “del popolo”, perché invece, ben che vada, rappresenta le esigenze di un ristretto gruppo di interessi.

Una radice di questo stato di cose è da ricercarsi nella dissoluzione delle agenzie comunitarie come formatrici di quello che, per intenderci, chiameremo “l’uomo sociale”. Partiti, chiese, sindacati, e quant’altro ha rappresentato in passato “l’animale politico” di aristotelica memoria, si sono dissolti sotto l’assalto dell’individualismo di identità che si lascia inquadrare, e solo momentaneamente, dalla manipolazione demagogica, la quale punta non più alla costruzione di un idem sentire riguardo al futuro, ma allo sfruttamento delle paure che continuamente assediano l’individualismo che comprende l’impossibilità di resistere da solo.

Chi volesse realmente proporre una ripresa della democrazia rappresentativa dovrebbe partire dal coraggio di riconoscerne la crisi e di conseguenza dal tentativo almeno di proporre le vie per superarla. Il mantra dell’invocazione ai valori e alle regole “scolpiti” (la sola scelta di questo vocabolo sa di vecchia e vuota retorica) nella Carta costituzionale ha un valore consolatorio e lascia il tempo che trovano tutte le formule magiche con cui ci si illude di cambiare la realtà.

Il problema oggi di riscoprire e rilanciare la democrazia rappresentativa dovrebbe partire da alcuni punti. Primo: non ci si può appellare al popolo, se non si creano le condizioni perché il popolo si formi e viva in maniera autentica. È una questione di educazione permanente, ma anche di paziente e serio contrasto ai populismi (che non si battono inventandone altri che si suppongono migliori). Vale per la scuola, ma va oltre. Diciamolo francamente: il comportamento in Senato dei parlamentari Pd con cartelli e grida quando parlava Salvini nel dibattito sulla crisi di governo è quanto di più diseducativo si possa produrre.

Secondo punto: la democrazia va costruita con pazienza come una esperienza concreta che partendo dal basso si espande verso l’alto. Bisogna riscoprire la democrazia autentica in tutte le sedi in cui si organizza la possibilità di partecipazione: dalle scuole, alle comunità locali, ai sindacati, ai gruppi di volontariato, alle regioni, e via elencando. È però imprescindibile ripulire quelle sedi dalle incrostazioni demagogiche che hanno proliferato: anche qui niente principi per cui “uno vale uno” e dunque via a ruota libera inventandosi competenze che non si hanno, ma esercizio serio del vecchio sano principio del “conoscere per deliberare”.

Terzo punto: è imprescindibile ridare forza al sistema di creazione e di selezione di soggetti che siano realmente in grado di “rappresentare”. I modi che oggi si seguono per la selezione dei “candidati” a tutte le cariche rappresentative sono carenti e manipolabili. È necessario lavorare per individuarne di nuovi idonei. Ma soprattutto è necessario, se si vuole avere realmente una circolazione delle élite, studiare il modo che renda possibile sia che si acceda al “lavoro politico” con un adeguato bagaglio di competenze, sia che chi vi accede possa poi venire sostituito senza che questo significhi per lui un drastico ridimensionamento del suo status (è inutile pensare che si possa lavorare solo con moderni Cincinnato, lieti di tornarsene nell’ombra dopo aver dato un contributo: qualcuno c’è, ma è l’eccezione che conferma la regola).

Ovviamente quanto si è scritto non è un programma di governo, neppure se si trattasse davvero di un governo di legislatura. È l’inizio di una rivoluzione culturale che dobbiamo affrontare tutti, e in specie una forza politica, essendo entrati, emblematicamente, in un nuovo millennio.