Theresa May aveva voluto le elezioni anticipate per ottenere un mandato più ampio in modo da gestire i negoziati per la Brexit con «mano ferma». Ora si trova con un gruppo parlamentare che conta 318 MP, 12 in meno rispetto al Parlamento uscente. Dunque i conservatori hanno perso la maggioranza. Atmosfera del tutto diversa tra i laburisti, che guadagnano 31 parlamentari, raggiungendo quota 261. Perdita significativa di consensi per i nazionalisti scozzesi dell'Snp (35 parlamentari, 19 in meno). Le cose vanno bene invece per i liberaldemocratici, che guadagnano 3 seggi, raggiungendo quota 12, ma pèrdono Nick Clegg, uno dei loro parlamentari più efficaci, ex leader del Partito, che l'ha guidato nel periodo in cui i Lib-Dem sono stati alleati dei conservatori nel governo Cameron. Una sconfitta con un chiaro significato politico. Tra i piccoli, oltre alla sparizione dell'Ukip, il cui leader si è prontamente dimesso, c'è da segnalare il buon risultato degli Unionisti dell'Ulster, Dup, che guadagnano 2 seggi, passando a 10 parlamentari. Diventando a questo punto la stampella su cui Theresa May tenterà di appoggiarsi per il governo di coalizione che questa mattina ha proposto alla regina.

Dal punto di vista formale, siamo al cospetto di un Hung Parliament, come si dice nel Regno Unito. Cioè una situazione in cui il voto, per via del sistema uninominale, non ha prodotto un risultato definito: c'è un primo partito, i Tories, ma non ha la maggioranza in Parlamento. Una circostanza relativamente rara nella storia britannica. Tuttavia, oggi il sistema politico non è più sostanzialmente bipartito, come era in passato. Ci sono diversi altri partiti, alcuni dei quali hanno presenze parlamentari significative, o comunque sufficienti per mettere insieme un governo di coalizione. Questa è stata, infatti, la soluzione subito prospettata da Theresa May, che ha concluso un accordo con gli unionisti dell'Ulster. Governare con loro non sarà comunque una cosa semplice, almeno per due ragioni. Si tratta di un partito con un elettorato socialmente conservatore, protestanti nord-irlandesi, che potrebbe quindi spingere più a destra i Tory su questioni come quelle dei diritti Lgbt, su cui il partito, negli anni della leadership di Cameron, era diventato molto più aperto, rompendo in modo netto con la tradizione. L'altro problema posto da questo tipo di collaborazione, è che la stampella di un nuovo governo May premerà verosimilmente per un accordo che consenta di conservare l'attuale confine «poroso» in Irlanda. Questo vuol dire che una «Hard Brexit» potrebbe non essere più un'opzione per il governo May. Che quindi sarebbe costretto ad abbandonare il proprio approccio «muscolare» (almeno a chiacchiere) nel negoziato con l'Unione europea. Ciò potrebbe mettere in pericolo i consensi del partito nei seggi marginali dove i voti Ukip sono stati riassorbiti dai Tories. Con il rischio di brutte sorprese in ipotetiche by-elections, una circostanza che non si può escludere. Una "Hard Brexit" potrebbe non essere più un'opzione per il governo May. Che quindi sarebbe costretto ad abbandonare il proprio approccio "muscolare" nel negoziato con l'Unione europea

Vengono poi alcune considerazione di carattere politico. Quella che abbiamo visto nelle scorse settimane è stata una campagna sostanzialmente bipartita. Abbastanza presto si è capito che, contro l'opinione diffusa tra «gli addetti ai lavori», la scelta per molti elettori si sarebbe ridotta ai due partiti maggiori, conservatori e laburisti, salvo in quei seggi in cui localmente il secondo partito erano i Lib-Dem oppure i nazionalisti scozzesi. C'è stata probabilmente una certa quantità di elettori che ha votato in modo tattico, come erano stati invitati a fare dalla campagna anti-Brexit, il che non modifica però il dato di fondo: una sconfitta bruciante per i Tories, che hanno chiesto una maggioranza più ampia e sono costretti a un governo di coalizione, e un successo per il Labour, che torna ad essere un secondo partito forte, in condizione, se riesce a mettere insieme un'azione parlamentare efficace, di dare filo da torcere al governo. Stamattina diversi ex collaboratori di Tony Blair, intervistati dalla Cnn, si sono affrettati a mettere in chiaro che Jeremy Corbyn è stato il vincitore, colui che, come ha riconosciuto Lord Falconer, ex ministro della Giustizia, è stato in grado di entrare in sintonia con l'elettorato meglio dei reduci del New Labour. Presto per dire che «la guerra civile» è finita, come pure si è letto in diversi commenti a caldo sui social. Ma è certo che a questo punto l'idea che Corbyn fosse soltanto un fardello per il partito è stata messa in discussione. Con essa, l'assunto dogmatico che i partiti socialisti non possono fare altro che proporre un'agenda neoliberale dal volto umano. In effetti, come faceva presagire un manifesto in sostegno della piattaforma elettorale del Labour firmato da un significativo gruppo di economisti, lo status quo ideologico è stato messo seriamente in discussione. L'idea che non si possa invertire la tendenza verso tagli sempre più massicci ai servizi pubblici sembra non essere più accettata da una parte consistente degli elettori. C'è stato, per esempio, un aumento consistente del voto giovanile, che pare si sia orientato in larga misura verso i laburisti. In questo caso la posizione ferma di Corbyn in favore di un'inversione di tendenza delle politiche in materia di educazione, Welfare e edilizia pubblica è stato verosimilmente decisiva. Infine un punto di particolare importanza per gli osservatori europei: questa non è stata un'elezione su Brexit. Quello del negoziato con l'Europa è stato un fattore tra gli altri, ma il Labour non ha mai messo in discussione il risultato del referendum dell'anno scorso, anche se Corbyn ha lasciato intendere che, se fosse diventato Primo ministro, avrebbe proposto un approccio molto diverso alla trattativa. L'idea che non si possa invertire la tendenza verso tagli sempre più massicci ai servizi pubblici sembra non essere più accettata da una parte consistente degli elettoriCerto è presto per dire che la corrente stia cambiando. Ma forse si può dire che si comincia a intravedere la possibilità di un modello diverso, anche se non incompatibile, con quello Macron. La prospettiva di coalizioni progressiste che tengano insieme centro e sinistra non è più impensabile, almeno sul piano del consenso.