La vita pubblica americana è scossa da una «guerra civile politica» che intacca il principio di cittadinanza democratica, restringe i diritti come storicamente affermatisi, riduce la natura multirazziale e multietnica del Paese a favore della «società bianca», inficia i grandi temi dell’agenda pubblica, e ridefinisce in senso limitativo il rapporto tra autorità, libertà e giustizia, con il rischio di forme di democrazia «blindata» o «autoritaria». Questa traiettoria erode i fondamenti condivisi della democrazia e polarizza opinione pubblica ed elettorato in schieramenti non più competitivi ma nemici. L’attuale radicalizzazione è frutto della «grande divergenza» emersa negli anni Ottanta reaganiani, dalle culture politiche neoliberiste e neonazionaliste, dalla crisi del condiviso principio newdealista di un governo federale arbitro ultimo di diritti, doveri e solidarietà.

La democrazia americana novecentesca non era stata intesa solo come procedura elettorale, ma come via verso un pur vago e diversamente inteso «progresso». Oggi invece le forze che accentuano la radicalizzazione – il Partito repubblicano, gli Stati cosiddetti «rossi» (in America, al contrario dell’Europa, i «rossi» sono i repubblicani), la Corte suprema, i potenti gruppi di pressione come la National rifle association, usbergo del diritto individuale alle armi, le chiese evangeliche e cattoliche di destra, potenti finanziatori come i famosi fratelli Koch, tutti quanti di fedeltà Maga (Make America great again, lo slogan di Trump) – si ispirano a un obiettivo di «restaurazione» di un’America bianca improntata a valori tradizionalisti di cui gli anni Cinquanta sarebbero stati il mitico esempio.

Per quanto riguarda i repubblicani, il conflitto si svolge sia a livello del Congresso sia, e ancor più, nei numerosi Stati a guida «rossa». Nel primo, approfittando della maggioranza democratica striminzita e divisa sia alla Camera sia al Senato (dove vige l’assurda regola dell’ostruzionismo per cui quasi nessuna norma può essere approvata senza la convergenza bipartisan di sessanta voti, pressoché impossibile nell’attuale polarizzazione), i repubblicani contano di riprendere la maggioranza alle prossime elezioni intermedie di novembre, e hanno bloccato con successo i principali progetti dell’amministrazione: in particolare la grande proposta di spesa sociale, sanitaria, occupazionale e ambientale Build Back Better, ma anche leggi di tutela dei diritti elettorali, di regolazione dei poteri della polizia e di restrizione del diritto illimitato alle armi.

I congressisti repubblicani hanno sostenuto l’azione degli Stati «rossi», che sono il principale terreno di promozione della guerra politica in corso e delle leggi limitative dei diritti. È dagli Stati che sono emerse le norme restrittive o proibitive dell’aborto, la cui protezione legale la Corte Suprema nel recente caso Robbs v. Jackson ha dichiarato incostituzionale. In maniera altrettanto importante, essi sono all’avanguardia in iniziative legislative, organizzative e amministrative, restrittive del diritto di voto, in nome di una pretesa «integrità elettorale», che richiama la menzogna trumpiana dell’elezione «rubata» di Biden nel 2020.

Voto postale più difficile, riduzione del numero dei seggi, più severa verifica di identità, misure che spesso impattano su aree povere ed etnico-razziali filodemocratiche. Il ministero federale della Giustizia ha aperto una controversia con lo Stato dell’Arizona, la cui recente legge elettorale richiede ai votanti di provare la propria cittadinanza, in violazione del Civil rights act del 1964 che vieta di respingere la registrazione al voto per informazioni irrilevanti rispetto al diritto della persona a votare. Sintomo della durezza dello scontro tra governo federale democratico e Stati «rossi» anche in violazione delle leggi vigenti, un leader dei repubblicani dell’Arizona ha ribadito che «sconfiggeremo gli sforzi del governo federale di interferire con le garanzie elettorali del nostro Stato».

Altro tradizionale strumento partigiano è ridefinire i collegi elettorali a seguito di modifiche della popolazione, e disegnarli in modo tale che in ciascuno prevalgano ceti ritenuti più favorevoli al proprio partito. Oppure, come nell’iniziativa «Operazione ali d’aquila» (Operation eagle wings), finanziata dal miliardario conservatore Patrick Byrne e promossa da due campioni della persistente menzogna del «furto elettorale» quali Michael Flynn e Roger Stone, si reclutano, sempre in nome dell'integrità, futuri membri favorevoli degli uffici di gestione elettorale, alcuni dei quali hanno resistito nel 2020 alle pressioni trumpiane di manipolare il risultato. Nel caso più estremo, si manipola l’interpretazione della legge elettorale dicendo che, in caso di presunti brogli, la vittoria del candidato viene annullata e tocca invece al congresso statale (e, sottinteso, alla sua maggioranza) stabilire chi abbia vinto. Trump aveva preteso qualcosa di simile dal vicepresidente Mike Pence, che aveva avuto il compito di certificare nel Congresso il risultato elettorale del 2020, divenendo una delle bestie nere dei trumpiani e uno di quelli che gli invasori del Congresso del 6 gennaio volevano passare per le armi.

Infine, Stati carboniferi come la West Virginia hanno promosso la guerra contro il programma federale di controllo delle emissioni inquinanti, trovando il sostegno della Corte Suprema che ha deliberato che il governo federale non può promuovere piani di produzione elettrica indipendenti dal carbone, una sentenza devastante che ha affossato la promessa di Biden di tagliare il 50% delle emissioni entro il 2030.

Stati carboniferi come la West Virginia hanno promosso la guerra contro il programma federale di controllo delle emissioni inquinanti, affossando così la promessa di Biden di tagliare il 50% delle emissioni entro il 2030

Anche qui la guerra politica divarica un altro terreno di condivisione democratica e si sta erodendo la fiducia in un processo elettorale corretto. La restrizione del diritto di voto vuole porre un freno ai democratici che sono nettamente la maggioranza nel Paese, come diverse delle ultime elezioni presidenziali indicano, soprattutto limitando il peso degli strati etnico-razziali e poveri, dove quindi la convenienza elettorale repubblicana si incontra con la restaurazione dell’America, la «società bianca». Una prevalenza numerica, quella dei democratici, che non riesce a tradursi in predominio politico a causa delle loro incertezze e divisioni, ma soprattutto di un sistema politico-istituzionale che premia le aree del Sud e del West a minore popolazione ma prevalente a dominio «rosso».

Altro promotore della guerra è la Corte suprema, dove Trump ha nominato ben tre giudici conservatori, oltre agli altri due dello stesso colore che c’erano già. Questi cinque sovrastano il primo giudice Roberts, conservatore moderato, che ne è volenteroso prigioniero malgrado i suoi sforzi inani di tenere conto delle tradizioni di equilibrio e cautela che avevano caratterizzato la storia della Corte (è noto che lo scorso settembre Roberts aveva approvato la legge del Mississippi di bandire l’aborto dopo quindici settimane, e tuttavia era contrario ad abolire la famosa sentenza abortista del 1973, Roe v. Wade, sapendo che ciò avrebbe creato una polarizzazione nel Paese e cambiato il rapporto tra Corte Suprema e vita pubblica).

In un blocco di sentenze del mese di giugno, i giudici di nomina repubblicana non hanno solo cancellato il diritto all’aborto, ma anche permesso a dipendenti delle scuole pubbliche di pregare sul lavoro, andando contro la normativa sulla divisione tra chiesa e Stato; hanno reso difficile per gli Stati escludere le scuole religiose dai fondi pubblici; hanno limitato il potere dell’Agenzia federale di protezione ambientale di regolare le emissioni carbonifere; hanno allargato il diritto individuale a portare armi dichiarando incostituzionale la legge dello Stato di New York che limitava di circolare con armi nascoste addosso, anche se essa aveva il sostegno del 56% degli americani. Inoltre, la Corte ha approvato quasi tutte le limitazioni al diritto di voto provenienti dai governi statali repubblicani.

Contro la tradizione di una Corte relativamente sommessa rispetto alle grandi controversie della vita pubblica, con una larga percentuale di sentenze all’unanimità e divergenze instabili e non legate alla nomina partitica del giudice, l’attuale è una Corte iper-attiva che con sentenze di destra neo-individualista e turbo-liberista si schiera al vertice del blocco trumpiano, condividendone l’ideologismo reazionario e abbandonando ogni pretesa di equilibrio e di organo dell’interesse generale comunque inteso. Essa interviene così a gamba tesa in settori cardine dell’agenda pubblica del Paese, i diritti individuali, l’ambiente, la sicurezza pubblica, mentre gli Stati Uniti sono percorsi da sempre nuovi morti ammazzati da armi da fuoco individuali, cui si risponde con poco più delle usuali espressioni di cordoglio.

Il linguaggio della Corte si fa sempre più politico-ideologico: la motivazione data dal Giudice Samuel Alito alla sentenza contro l’aborto, per cui un diritto non esplicitamente menzionato nella Costituzione è accettabile solo se santificato dall’unanimità storica e attuale degli americani, e l’aborto non gode di questa qualità, mette potenzialmente in discussione diritti e tutele pubbliche e private consolidate (pratiche contraccettive, diritti delle diverse identità sessuali, estraneità della legge alle pratiche intime delle coppie). A loro volta i tre giudici liberali rimasti denunciano la politicizzazione partigiana della maggioranza e lasciano testimonianza di una diversa via interpretativa e politica.

La Corte non cerca il consenso. La fiducia del pubblico è crollata soprattutto negli ultimi mesi e soprattutto per i motivi che ne guidano le decisioni. Il 24 giugno, quando la sentenza sull’aborto è stata pubblicata, il 50% degli americani si è dichiarato contrario (ma un buon terzo era invece favorevole), e il 57% ha sostenuto che la cancellazione era «motivata dalla politica e non dalla legge». Intanto, la fiducia nella Corte è crollata al 25%, la cifra più bassa da quando la Gallup ha cominciato a rilevarla cinquant’anni fa. Secondo i democratici si sta usando la Costituzione «per distruggere l'autorità governativa democratica che essa era nata per proteggere».

Biden si sta dimostrando un leader incapace di carisma e di mobilitazione. Si era presentato con un programma femminista e ambientalista che però è fallito

Ma, appunto, e i democratici? La loro difesa è più sommessa, meno urlata, forse più tentennante. Biden si era presentato con un coraggioso programma di spesa pubblica keynesiana rinfrescato di femminismo e ambientalismo, ma lo ha visto fallire sugli scogli del Congresso e del partito diviso. La sua popolarità al 39% di approvazione è drammaticamente bassa, in grado di deprimere le prospettive elettorali di qualunque candidato democratico. Inoltre, si sta dimostrando un leader incapace di carisma e di mobilitazione e, grave sintomo di crisi del partito e del governo, si parla apertamente fin d’ora, a ben due anni di distanza, dell'esclusione della sua candidatura alle presidenziali del 2024, malgrado i molti vantaggi di cui gode il candidato presidente già in carica. Molta della guerra politica si svolge anche qui tra gli Stati, dove quelli «blu» (democratici), minori di numero (17 a 26) ma spesso più popolosi e produttivi come New York, California, Michigan e altri, usano i loro poteri, accesso all’aborto, tutela dell’ambiente, liberali condizioni di voto, per la controffensiva contro quelli repubblicani restrittivi, con in testa Texas e Florida, il cui governatore, Ron DeSantis, si propone come candidato trumpiano post-Trump alle presidenziali del 2024.

I risultati delle elezioni intermedie del prossimo novembre sono importanti per l’andamento della «guerra»: in generale il partito del presidente in carica perde per lo iato tra promesse e realizzazioni, debolezza accentuata nel caso di Biden. L’autorevole casa di previsioni elettorali FiveThirty Eight vede una vittoria repubblicana alla Camera e una possibilità per i democratici di mantenere il controllo del Senato, soprattutto se essi hanno la capacità di presentare efficacemente le intermedie non come ordinaria amministrazione, ma come appuntamento dove sono in gioco i fondamenti stessi della cittadinanza democratica e dell’agenda pubblica progressista (anche se poi non se la sentono di promuovere due riforme istituzionali radicali, come smantellare l’ostruzionismo al Senato e allargare il numero dei giudici di Corte suprema per capovolgere la maggioranza come Roosevelt cercò di fare nel 1937). Le testimonianze presentate dalla commissione congressuale d’inchiesta sull’invasione del 6 gennaio ha documentato i tentativi golpisti dell’ex presidente (anche se i tentativi legali di distruggere Trump non ne hanno scalfito granché la popolarità nella base repubblicana). L’estremizzazione dei repubblicani, dove molti candidati trumpiani vincono le primarie «rosse», dovrebbe spingere gli indipendenti verso l’altro partito (oppure verso il non-voto).

Sicuramente la guerra continuerà e la «grande divergenza» si approfondirà fintanto che non si chiarirà quale schieramento gode, come è accaduto in passato, di un chiaro predominio nazionale e indica le regole del gioco.