Come tanti altri ho iniziato la via crucis dello studio del tedesco nelle stanze del Goethe Institut. Nel mio caso si è trattato delle meraviglie della sede napoletana vicino la Villa Comunale. Grazie a una borsa di studio del Daad, ho poi frequentato un corso del Goethe di Göttingen, in una altrettanto bellissima residenza storica. A rischio di essere retorici, il Goethe è davvero la “porta” per chi voglia conoscere e studiare la Germania. Ecco perché confesso molto più di un dispiacere nel leggere la decisione della direzione centrale dell’Istituto di chiudere una serie di sedi in Francia e in Italia (da noi per ora ad essere colpite sono Torino, Trieste, Genova e Napoli) e di rafforzare le attività soprattutto in Europa orientale: sapere che altri non avranno quella possibilità che ho avuto io, frequentare corsi interessanti e molto ben strutturati, i primi passi per entrare nel mondo tedesco, è davvero una pessima notizia.

Oltre al dispiacere, però, so che non si tratta di un fulmine a ciel sereno. Di avvisaglie ne avevamo avute: non possiamo parlare, per anni, di un raffreddamento dei rapporti tra Italia e Germania e poi sorprenderci di fronte a queste decisioni. Gian Enrico Rusconi ha sollevato nel 2007 il problema parlando di “estraniazione strisciante” tra Italia e Germania. Ancora, Angelo Bolaffi ha più volte sottolineato come la riunificazione del 1989-1990 avesse allontanato le prospettive geopolitiche di Italia e Germania, contribuendo ad approfondire la distanza tra i due Paesi, ormai avviati su binari diversi e quasi opposti. Oggi sia a Berlino sia a Roma al governo c’è una generazione (Meloni, Baerbock e Lindner sono praticamente coetanei) che non ha conosciuto il passato fatto di rapporti complicati ma comunque positivi, che hanno contraddistinto il dopoguerra fino alla Riunificazione, ma solo quelli alterati e difficili degli ultimi anni, caratterizzati dalla estraniazione.

Le analisi di Rusconi e Bolaffi sono state spesso bollate come esagerate e troppe volte non si è dato seguito ai loro moniti. In fondo – obiezione che non mancava e non manca mai – i rapporti commerciali ed economici tra i due Paesi sono eccellenti come pure i sistemi produttivi molto integrati: perché, dunque, preoccuparsi se a scricchiolare sono “solo” i rapporti politici?

A rendere manifesto che un problema, invece, esiste è proprio la decisione di chiudere le sedi del Goethe, che segue a un ulteriore raffreddamento tra i due Paesi evidenziato dalla scelta di limitarsi a firmare un patto di azione e non un vero Trattato sul modello di quello che Roma e Berlino hanno con la Francia. Rendendo così apparentemente vuote le felicitazioni per le sempre floride notizie sui sistemi produttivi ed economici: d’altro canto, a voler essere cinici, anche i rapporti economici tra Russia e Germania il 23 febbraio 2022 non erano poi tanto male. Eppure…

Un primo problema, dunque, è rappresentato dall’esito dell’estraniazione strisciante. Rusconi usò quell’espressione diciassette anni fa. Nel frattempo, i due Paesi, allontanandosi sempre di più, si capiscono sempre di meno e si riducono le opportunità di confronto. Pensiamo, ad esempio, all’inesistenza di legami politici tra i diversi partiti al Bundestag e nel Parlamento italiano: non c’è alcuna corrispondenza, solo fugaci rapporti in occasione delle elezioni europee, come dimostra chiaramente l’uscita della segretaria del Pd sul fatto che la Spd volesse diminuire le spese militari. Quando è vero il contrario.

 

Dallo scoppio della guerra russa in Ucraina, la Germania è tornata a guardare a Est, per colmare un ritardo proprio con i Paesi dell’Europa orientale

 

Questa incomprensione alimenta, da parte italiana, il sospetto e il risentimento verso la Germania e genera sempre più indifferenza da parte tedesca. Da tempo i due Paesi hanno preso strade diverse: una separazione molto profonda che non può essere certamente attribuita all’attuale governo italiano. E che la guerra russa in Ucraina ha accelerato: da quel momento, infatti, la Germania è tornata a guardare a Est, per colmare un ritardo proprio con i Paesi dell’Europa orientale che è il vero grande buco nero del cancellierato di Angela Merkel. E infatti, anche il Goethe, nel lasciare il Sud Europa, si sposta a Est, confermando una transizione in atto da tempo.

Tuttavia, sarebbe errato credere che questa sia solo un’ulteriore conferma della bontà delle tesi di Bolaffi e Rusconi. Il Goethe è, in fin dei conti, una scuola. Dove s’impara il tedesco, si comincia a capire un altro Paese partendo dalla chiave che ci permette di aprirne tutte le porte: la lingua per l’appunto. Tanti problemi, tante incomprensioni nascono proprio dalla circostanza di non parlare la stessa lingua e di utilizzare l’inglese come strumento per conversare. Giorgia Meloni, nella sua prima uscita berlinese da presidente del Consiglio, rispondendo a una domanda di un giornalista, ha ammesso non di odiare la Germania [sic!] ma di trovare molto complicato lo studio del tedesco. E, purtroppo, chiudere le sedi del Goethe significa ridurre ulteriormente la già scarsa offerta di corsi di lingua tedesca in Italia e le possibilità di favorire la comprensione e il dialogo tra i due Paesi.

Ma, si potrebbe obiettare, in fondo c’è l’inglese, perché preoccuparsene? Se abbiamo costruito l’Unione europea, a cosa serve indagare i singoli Paesi, la loro storia, cultura, le loro particolarità. A cosa servono i rapporti binazionali quando quello che serve è una prospettiva autenticamente paneuropea? In fondo, ragionare in termini nazionali è oggi un anacronismo, perché solo una vera cultura europea darà ulteriore vitalità al demos europeo e nuova spinta al processo di integrazione politica. Si potrebbe addirittura sostenere che questa sia la vittoria dell’Unione europea.

Si comincia a capire un altro Paese partendo dalla chiave che ci permette di aprirne tutte le porte: la lingua, per l’appunto

Ma le cose stanno davvero così? La sensazione è che questi giudizi siano quanto meno ottimistici e forse frettolosi. L’Europa non è la fine delle nazioni, delle loro storie e tradizioni. Anzi: crederlo è un errore che, alla lunga, può danneggiare anche lo stesso processo di integrazione. È quello che noi “occidentali” non abbiamo voluto capire: i Paesi dell’Europa orientale che entrarono nel 2005 non avevano affatto intenzione di perdere la loro specificità nazionale, che a fatica avevano recuperato dopo il crollo del sistema comunista. Aver dimenticato questo bisogno e aver reso Bruxelles una sorta di metronomo dell’integrazione è stata tra le ragioni della diffusione e del successo dei populismi.

Al contrario l’Europa, come molti evidenziano tra cui lo stesso cancelliere Scholz, seppur nella sua versione dai toni minimalisti e pragmatici, potrà esistere solo rispettando pienamente queste specificità culturali, storiche e persino giuridico-costituzionali.

Se la scelta del Goethe potrebbe spiegarsi con l’interesse tedesco di rafforzare i rapporti a Est, resta il problema di un ulteriore allontanamento tra i Paesi che hanno contribuito a fondare l’Europa. E noi che “subiamo” questa decisione, dovremmo chiederci come invertire questa tendenza anche e soprattutto ora che diminuiranno ulteriormente le occasioni di imparare il tedesco. Insomma, più che rimpiangere i bei tempi di Goethe e del suo Viaggio in Italia, dovremmo porre il problema proprio sul piano della necessità di individuare priorità precise nella codificazione e nello sviluppo della nostra politica estera e, in particolare, europea. E proprio in ragione dei rassicuranti dati macroeconomici convincerci che la Germania dovrebbe diventare un partner più stretto anche politicamente, al di là dei classici e in Italia sempre frequenti cambi di governo. D’altro canto, Berlino, pur con il comprensibile obiettivo di colmare il ritardo a Est, non dovrebbe ripetere l’errore di “disinteressarsi” nuovamente di Paesi vitali per lo sviluppo dell’Unione e, anche in presenza di risorse scarse e di una razionalizzazione, sarebbe lungimirante evitare di abbandonare del tutto lo spazio mediterraneo.

Conoscere gli altri è il presupposto fondamentale per il rafforzamento dell’Unione europea. Occorre familiarizzare innanzitutto con la circostanza che queste differenze esistono, che hanno un’origine storica e sociale, che sono da considerare per continuare il processo di integrazione continentale. Lo vediamo proprio in queste tragiche settimane di guerra in Medioriente: il dibattito italiano sembra impermeabile persino a confrontarsi con aspetti classici della recente storia tedesca ed è quindi destinato a non comprenderne le scelte politiche. L’antisemitismo – non tanto nella sua origine, quanto nella sua declinazione concreta –, il patriottismo costituzionale – come tentativo di una convivenza civile su basi democratiche e progressiste – e l’analisi, l’elaborazione del passato sono questioni che solo in casi rari sono autenticamente comprese nel dibattito pubblico del nostro Paese. Ma anche per Berlino e la sua politica estera questa impermeabilità, questa incomprensione della propria storia rappresenta indubbiamente un problema e un serio limite alla capacità tedesca di guidare, pur in un sistema di primus inter pares, l’Europa.

Se, come pare evidente e necessario, in Europa andiamo oltre il tentativo di trasferire ulteriori competenze e poteri a Bruxelles, avremo a che fare non più con una integrazione puramente giuridica e tecnocratica, mediata solo da attori specializzata e formalizzata in faticosi compromessi normativi, ma con una che coinvolgerà più soggetti e che dovrà sviluppare pratiche e modelli di cooperazione in settori specifici. È quindi ancor più necessario puntare alla conoscenza reciproca – dei sistemi sociali, della storia, delle tradizioni – senza la quale gli sforzi di una progressiva integrazione rischiano non già di fallire ma quantomeno di essere molto più sfiancanti. Il problema vero non è rimpiangere il passato, ma preoccuparsi sempre più del futuro: contrastando da un lato l’aumento del sospetto e del rancore in Italia verso la Germania e, d’altro canto, la crescita dell’indifferenza tedesca verso il nostro Paese. Devo ammettere che, oggi, quest’ultima mi fa più paura della prima: ecco perché spero sempre in un ripensamento da parte del Goethe.