La rielezione di Mattarella alla presidenza della Repubblica è la soluzione del problema o la sua rivelazione? Se dovessi giudicare sulla base di quel che ho letto sui quotidiani o delle dichiarazioni dei politici, la bilancia penderebbe dalla parte della soluzione. E così ci saremmo tolti il problema. Invece, ma spero proprio di sbagliarmi, credo che la bilancia penda dall’altra parte, e che la conferma di Mattarella sia la rivelazione di una disfunzione più grave, più profonda, che riguarda non una parte del sistema ma l’intero sistema politico.

Messa così sembrerebbe la descrizione di una crisi. Intendiamoci, non una delle tante crisi teoriche che vengono sfornate a getto continuo dai filosofi e che piombano sui destini della democrazia, dello Stato, della politica, della società ecc. Mi riferisco a qualcosa di più concreto e di più limitato, che riguarda la situazione politica italiana degli ultimi decenni.

La scienza politica non ha le spalle adatte per i voli pindarici. Ma non serve troppo acume o fantasia per constatare che tutte le parti che formano un sistema politico oggi, in Italia, si trovano in una condizione critica. Quando una componente del sistema smette di fare la sua parte, cioè non svolge più la propria funzione, diventa disfunzionale. E quando sono tutte le componenti a comportarsi in modo disfunzionale, la disfunzione, e dunque la crisi, diventa sistemica.

Quando una componente del sistema smette di fare la sua parte, diventa disfunzionale. Ma quando sono tutte le componenti a comportarsi in modo disfunzionale, la disfunzione, e dunque la crisi, diventa sistemica

Quali sono dunque le parti del sistema politico? David Easton ne indica tre: le autorità, il regime e la comunità politica. Che si prenda l’una o l’altra non fa differenza, perché la crisi le riguarda tutte. Cominciamo dalla prima. È evidente che il congelamento dello status quo tra Palazzo Chigi (Draghi) e Quirinale (Mattarella) certifica il fallimento delle autorità politiche, soprattutto di quelle partitiche: non solo perché incapaci di accordarsi su nomi alternativi, ma soprattutto perché rivelano la precarietà di una situazione che sembra essere legata soltanto al destino individuale di due persone. Dopo di loro o senza di loro, il crollo.

Lo stesso vale per il regime politico, cioè l’insieme delle regole, delle procedure e delle istituzioni su cui si regge lo Stato. Qui la crisi è lampante da tempo, ma a ogni tornante subisce un ulteriore avvitamento. Parlare di legge elettorale, a cominciare da quella attuale, sarebbe come sparare sulla Croce rossa. Quindi evito (e che sia indecente ormai lo riconoscono i suoi stessi promotori). Ma è l’intero assetto istituzionale che si è inceppato e non riesce più a garantire un’efficace rappresentanza, un governo stabile e una chiara responsabilità politica. La stessa presenza di un tecnocrate a Palazzo Chigi (ieri Monti, oggi Draghi) non è tanto una toppa messa nel regolare circuito della rappresentanza elettorale-democratica, ma rischia di essere una falla che allarga e aggrava il problema. Del resto, che il ricorso al podestà venuto dalla Bce per risolvere l’emergenza sia una soluzione tutta italiana, completamente sconosciuta negli altri grandi Paesi europei, dovrebbe farci riflettere e preoccupare. Invece pensiamo sia il solito colpo di genio italico.

Che il ricorso a un tecnocrate della Bce per risolvere l’emergenza sia una soluzione completamente sconosciuta negli altri grandi Paesi europei dovrebbe farci preoccupare. Invece pensiamo sia il solito colpo di genio italico

Infine, la comunità politica, che non comprende solo i singoli cittadini, ma anche i gruppi, le associazioni, i movimenti, i partiti che agiscono nell’arena della polis. Il giudizio sulla società italiana e le sue articolazioni, soprattutto quando si fa – e succede ormai troppo spesso – corporativa, non può essere dato qui in poche righe. Ma se ci occupiamo solo dei partiti, e quindi della loro capacità di incanalare le domande all’interno del sistema politico e poi di proporre/produrre decisioni all’altezza delle sfide, il giudizio non può che essere negativo. Sia in ingresso sia in uscita, i partiti italiani sono diventati più un ostacolo che un veicolo di collegamento tra gli elettori e i decisori. È chiaro che senza partiti staremmo tutti peggio, ma non può essere un alibi per accontentarci di un sistema partitico senza capo né coda, che riesce a rappresentare a malapena se stesso.

Se mettiamo assieme tutto questo, l’immagine della crisi di sistema è davanti a noi. Peraltro non si tratta soltanto della semplice somma della crisi delle tre componenti, ma è l’intreccio delle loro disfunzioni che alimenta ulteriormente la condizione critica e la fa diventare sistemica. A questo punto, bisognerebbe chiedersi come se ne esce o come si risolve la crisi. Prenderne seriamente coscienza sarebbe già un primo passo, perché i problemi li risolve chi li affronta e non chi li accantona. Ma da questo punto di vista, il sospiro di sollievo per lo scampato pericolo con cui è stata accolta la rielezione di Mattarella non promette nulla di buono.

L’altro modo per affrontare la questione è imparare dalla storia, almeno per evitare di commettere gli stessi errori già compiuti in passato. Non è la prima volta, infatti, che ci troviamo di fronte a una crisi di sistema, cioè dell’intero sistema politico italiano. Con le dovute differenze, basta spostare indietro le lancette dell’orologio esattamente di trent’anni e tornare all’annus horribilis del 1992 per capire che cos’è e cosa comporta una crisi sistemica. All’epoca venne rasa al suolo la «Repubblica dei partiti», mentre oggi è la «Repubblica dei leader», con i loro accrocchi partitici e di coalizione, a muoversi pericolosamente sulla prua del Titanic.

Soprattutto, trent’anni fa o giù di lì, si pensò di risolvere la crisi giocando la carta del rinnovamento istituzionale, cambiando le regole del gioco. Sperando cioè che fossero le nuove regole a rifare i giocatori. Oggi, col senno del poi, sappiamo che quelle regole, peraltro mal congegnate, non hanno rifatto un bel nulla. Anzi, hanno contribuito allo sfascio, destrutturando il sistema dei partiti o impedendone la ristrutturazione. Convinti che, cambiando le regole, a partire da quelle elettorali, ci saremmo ritrovati dritti dritti a Londra, praticando la democrazia maggioritaria, abbiamo finito per ritrovarci tra le parti di Bucarest e Budapest, con frammentazione galoppante, polarizzazione crescente, un’immodica dose di populismo e qualche spruzzata tecnocratica.

In sintesi, chi vuole risolvere la crisi deve tenersi alla larga dalle riforme istituzionali. Alcune servirebbero, a cominciare da una legge elettorale decente, ma il rischio che l’intervento peggiori la malattia è troppo alto. Basta mettere il naso fuori dalla finestra per sentire come è ripreso il dibattito sulle riforme, con i soliti derby tra chi non sa nulla ma parla di tutto: presidenzialisti contro parlamentaristi, maggioritaristi contro proporzionalisti, autonomisti contro centralisti. Se questo è l’andazzo, decisamente meglio il non fare che il disfare. Il che non significa che si debba stare con le mani in mano, in attesa che la crisi faccia il suo corso. Abbiamo perso almeno trent’anni nel provare a cambiare la politica dall’alto e i risultati ce li abbiamo davanti agli occhi. Continuare su quel percorso è solo una perdita di tempo.

Chi vuole ricostruire seriamente la politica deve farlo dal basso, iniziando dai partiti. Ridando forza organizzativa e spessore identitario/culturale a quelli esistenti oppure provando a ricostruirne di migliori. A mio avviso è possibile, ma conosco già l’obiezione di comodo: vaste programme! L’obiezione però non mi convince. Intanto perché se avessimo cominciato a farlo trent’anni fa, piuttosto che inseguire scorciatoie istituzionali, oggi non ci troveremmo nella situazione in cui siamo. Ma soprattutto perché è meglio avere un programma ambizioso che un programma sbagliato. Dove ci hanno portato decenni di riforme istituzionali mal fatte lo sappiamo già. Quindi meglio cambiare strada. Nel frattempo, speriamo che Dio, Draghi e Mattarella ce la mandino buona.