Lento, confuso e ruffiano. Queste sono alcune delle critiche mosse al film dell'esordio americano di Paolo Sorrentino, This must be the place, pellicola che ha diviso sia la critica sia il pubblico, italiani e non. Delusa la critica francese subito dopo Cannes, più benevola ma non convinta quella inglese, calorosa o tranchant quella americana, è invece quella tedesca a essere la più morbida e la più colpita dal film, uscito nelle sale in Germania solo il 10 novembre.

Lento perché segue l'incedere lentissimo, per alcuni insostenibile, di Cheyenne (Sean Penn), una rockstar ritiratasi dalle scene ma rimasta intrappolata nella sua maschera dark. Confuso perché la capacità compositiva dell'immagine, tipica del regista, viene giudicata formalista e autoreferenziale, a scapito della narrazione. Ruffiano perché sceglie il tema dello sterminio ebraico come motivo di un road movie. Senza addentrarsi nell'analisi stilistica del film – che richiederebbe ben altre competenze – quest'ultima scelta appare invece indubbiamente interessante per chi si occupa di memoria. Alcune recensioni la liquidano velocemente come un pretesto, se non un “orpello narrativo” (e in certi casi si adombra malevolmente come a Hollywood siano sensibili al tema). Ma una riflessione più sottile sulla scelta del regista italiano, e soprattutto sulla modalità di affrontare l'argomento, può e deve essere fatta. L'uso della “caccia al nazista” come strumento narrativo è infatti certamente qualcosa su cui soffermarsi.

Se alla fine degli anni Novanta due film sono usciti prepotentemente dalla linea “mimetica” di rappresentazione della Shoah, tentando la via “metaforica” (Train de vie con il sogno e La vita è bella con il gioco), solo nel 2009 Tarantino ha fatto del nazismo – e non certo dello sterminio – il soggetto di una commedia pulp, tuttavia con rimandi a Vogliamo vivere! di Ernst Lubitsch, realizzato addirittura nel 1942 (quando, come già aveva fatto Chaplin nel 1940, era ancora possibile scherzare su Hitler).

Sorrentino tenta qualcosa di completamente diverso. Se il road movie è certo un genere, possiamo dire che ormai lo è anche l'Holocaust movie. Il regista italiano incrocia le due forme prendendosi una leggerezza come mai nessuno aveva avuto il coraggio di fare. Infatti, come Cheyenne conosce l'Olocausto in a general sort of way, “in modo molto generico”, anche il suo regista non passa – apparentemente – attraverso tutto il carico considerato necessario per trattare il tema. Eppure coglie – e fa cogliere a Cheyenne – alcuni aspetti in modo netto e preciso.

Dopo un'accusa tutt'altro che lieve al cacciatore di nazisti, quella di avere inseguito solo i criminali maggiori per cercare la luce dello show business (accusa forte, durissima, polemica, soprattutto in un film tacciato di avere dialoghi banali), nel tentativo di colmare le sue lacune l'ex rockstar viene invitata a partecipare a una lezione sulla Shoah. Una lezione costituita dalla proiezione muta di immagini in bianco e nero. Cheyenne regge poco quella visione, si alza dopo aver visto le notissime fotografie dei corpi accatastati accanto alle baracche e di un corpo consumato e abbandonato nella neve. Poi, parte. Basandosi sugli appunti del diario del padre, pagine fatte di parole e immagini (e i diari dei deportati sono molto spesso costituiti allo stesso modo, con gli schizzi che cercano di registrare quello che a parole non si riesce a descrivere), risale fino al suo carnefice. Che in effetti non fu colpevole di nulla più che un'umiliazione (ma l'umiliazione è ciò che offende maggiormente l'uomo che ancora possiede un briciolo di dignità, preziosissima per sopravvivere nei Lager). E proprio un'umiliazione è la vendetta, attraverso la ricreazione della conoscenza visuale assunta da Cheyenne nella veloce lezione sulla Shoah: un uomo nudo, consumato dagli anni (e dall'ansia della fuga incalzata dall'odio di una vittima), nella neve, appena fuori da una baracca. Nel biancore abbacinante, Cheyenne consuma la sua Endlösung, eufemismo nazista per lo sterminio, che alla lettera potrebbe rendere il senso di soluzione (per il) finale. Tutto questo, non prima di avere scattato una fotografia al vecchio nazista, ormai quasi cieco: perché solo così Cheyenne può dimostrare a se stesso di avere raggiunto l'obiettivo. Se avesse avuto un cellulare, avrebbe certo scattato con quello. E la pistola non avrebbe dato la stessa soddisfazione di quel souvenir in un mondo che è effettivamente show, spettacolo, immagine da cartolina.

Ruffiano? Forse. O forse vuole farci capire che, a forza di trattare lo sterminio ebraico in formule spesso più o meno consapevolmente stereotipate, lo si è reso un tema, suo malgrado, pop. E che, augurandogli un buon destino, potrebbe diventare un sorta di topos letterario moderno. Non più “intoccabile”, è divenuto un tema come tutti gli altri: chi vorrà, dovrà cercare di affrontarlo con delicatezza e intelligenza, forse senza sapere tutto ma cercando di dire ancora, oltre canoni fissati anche se non espliciti. Forse senza dare la caccia ai nazisti peggiori, ma continuando a dare voce alle vittime, alla loro umiliazione e anche al loro indicibile odio.