Come è meglio reagire davanti alle parole di un bullo, specie se particolarmente nocive, irresponsabili e crudeli? Che cosa è meglio fare di fronte alle sue violente, degradanti, illegittime e distruttive, non certo costruttive, azioni e velleità? Che cosa opporre al suo baldanzoso e incurante disprezzo del senso del limite e del lecito, del valore e del ruolo della conoscenza, del peso (ma anche del conforto) della memoria storica, delle norme e delle regole minime della (nostra, beneamata) civiltà, delle convenzioni e delle istituzioni, della logica e dei primordiali sentimenti umani di pietà, compassione e solidarietà?

E ancora, che cosa dire alle persone che pensano realmente che questo sia il (presunto) cambiamento verso cui muovere, che alzare la voce, e allo stesso tempo inabissare sempre più il livello del confronto e del discorso, possa realmente servire a risolvere tutti i nostri problemi e, soprattutto, a metterci al sicuro (noi, i nostri interessi, i nostri figli)? Che strumenti usare quando i numeri sono per lo più considerati opinabili, o manipolabili a proprio uso e consumo, i princìpi applicabili in modo differenziale, quando non direttamente calpestabili, e le regole il risibile passatempo degli ingenui, di chi può perdere il tempo a cavillare solo perché non deve fare i conti con la dura realtà?

Queste e altre domande vengono alla mente, di fronte a un mondo nel quale non si sa più che cosa appellarsi quando la cultura, l’esperienza e la preparazione, in senso generale e specialistico, sembrano essere divenute un inutile vezzo da snob, un dato accessorio e ormai non più imprescindibile. Diventa difficile trovare l’atteggiamento migliore, e soprattutto non controproducente, di fronte a chi, da uno scranno istituzionale o nascondendosi dietro un monitor, ritiene accettabile disprezzare, dileggiare, umiliare, aggredire un bambino che urla disperato, una persona ridotta a spennare un piccione per strada, un gruppo di persone rinchiuse su una nave, solo perché straniere. Nonostante la loro contingente condizione di bisogno, vulnerabilità e debolezza, o forse – peggio ancora – proprio a causa della loro contingente condizione di bisogno, vulnerabilità e debolezza.

Che cosa fare se, per quanto con variazioni di intensità rilevanti e da rilevare, l’atteggiamento da bullo sembra essere divenuto, peraltro ormai da qualche tempo, lo stile ormai prevalente in molti ambiti della vita politica e sociale di un Paese? Se il bullismo sembra essere ormai lo stile vincente, comune, diffuso e convintamente rivendicato, non solo da alcuni futuri adulti ma in prima istanza anche da molti, troppi, adulti?

Il bullismo viene definito come “l’atteggiamento di sopraffazione sui più deboli, con riferimento a violenze fisiche e psicologiche attuate specialmente in ambienti scolastici o giovanili” (Dizionario Treccani). A questo riguardo, chi lo studia dal punto di vista della psicologia sociale, sottolinea che “Intenzionalità, persistenza e disequilibrio sono […] le caratteristiche essenziali che distinguono singoli episodi di violenza, intesi come normali fasi delle dinamiche conflittuali all’interno del gruppo […], da atteggiamenti bullistici veri e propri, che si caratterizzano per la ripetitività, per il grado di pericolosità, per il sadismo manifesto nei comportamenti del bullo, per l’intenzionalità persecutoria e i desideri di vendetta che riattivano, continuamente, il ciclo della vittimizzazione” (Cinzia Montuori).

La migrazione è una questione sommamente politica non solo in senso strettamente elettorale – dunque non solo perché è uno di quegli argomenti “caldi” che ben si prestano ad animare le folle, spostare consensi e produrre slogan semplici e a effetto – ma piuttosto perché, come ha evidenziato tra gli altri il sociologo e filosofo algerino Abdelmalek Sayad, la migrazione funziona come uno specchio che restituisce l’immagine del modo nel quale sono costruite e ordinate le comunità politiche di arrivo e quelle di partenza, nonché le loro relazioni reciproche: “pensare l’immigrazione significa pensare lo Stato”, dice Sayad, perché ”lo Stato pensa se stesso pensando l’immigrazione”. Che immagine di noi vediamo allora riflessa nei volti, negli occhi, nelle mani dei migranti?

Vediamo l’immagine di una società nella quale molti credono, al di là di qualsiasi evidenza o conoscenza dei fatti come ha spiegato bene Sergio Fabbrini, che la difesa degli interessi nazionali, ovvero l’azione di governo, non è una pratica lunga, complessa e sofisticata, che richiede di sedersi ai tavoli con competenza, serietà e rispetto, discutendo, mediando, dando e chiedendo, ma è sufficiente fare la voce grossa; è sufficiente, anzi più efficace, buttare all’aria i tavoli, insultare gli astanti e allearsi, a prescindere da ogni altra considerazione, con chi fa lo stesso.

Vediamo l’immagine di una società nella quale è ritenuto vincente, perché più patriottico, più realistico, più concreto, chiudere i porti e le frontiere, invece che condividerne l’apertura, abbandonare, invece che soccorrere, tagliare le suole delle scarpe dei ragazzini, piuttosto che accompagnarli.

Il problema di fondo del bullismo non è infatti tanto, né solo, la violenza che esprime ma il fatto che essa si rivolge, senza sosta, contro chi è più debole, o come tale è percepito e narrato.

È un atto di violenza impari, vigliacco e crudele. Mira all’annientamento. Produce vittime, non feriti. E ne produce continuamente di nuove e di diverse, senza limiti, né tentennamenti. Nella logica del bullismo non è prevista la possibilità di fare pace. Il bullismo non apre alla possibilità di nuove alleanze o discorsi, ma ha come esito unico, e continuamente reiterato, la disgregazione, la distanza, l’inaridimento di tutti, bulli, vittime e spettatori.

Il bullo non guarda al futuro. Non guarda negli occhi. Non vuole fare i conti con la propria paura e per questo ha bisogno di assicurarsi quella altrui. Non riconosce, né rispetta, l’avversario. Ne ridacchia, lo schernisce, lo svilisce. Il bullo non ascolta, non cerca di comprendere, non prova a mettersi nei panni altrui. Il bullo non risolve i problemi che gli causano ansia, li cronicizza, li esaspera, li moltiplica.

Il bullismo è la debole strategia di difesa dei deboli, di chi non sa far altro che reagire narcisisticamente, rabbiosamente. Che fare allora?

Si invoca spesso la necessità di un Piano Marshall per aiutare i Paesi e le popolazioni dell’Africa, ma sembra piuttosto oramai suonata l’ultima chiamata per decidersi ad aiutarci, a prenderci cura di noi, di quello che siamo diventati. A prenderci cura non delle nostre frontiere, ma del nostro senso civico, del nostro senso delle istituzioni e dell’agire comune e solidale. Non della nostra civiltà, ma della nostra inciviltà. Non della purezza della nostra cultura, ma delle condizioni e del ruolo del nostro sistema scolastico e universitario. Non della nostra maggiore o minore sovranità, ma del nostro sistema di informazione e di critica pubblica dei pensieri e dei poteri. Non della nostra forza, ma delle nostre vulnerabilità, delle nostre ineguaglianze profonde, delle nostre paure. Non dell’emergenza (che non c’è), ma del nostro futuro. Il tempo è giunto. Non possiamo più aspettare.

 

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