Wikileaks o Facebook? Julian Assange o Mark Zuckerberg? Per la redazione del “Time” l'inventore di Facebook è l’uomo del 2010, nonostante il voto dei lettori avesse premiato Assange. I due rappresentano percorsi differenti nella Rete. Una lettura superficiale porterebbe a vedere nel primo il lato oscuro della Rete in contrapposizione al secondo. Wikileaks è una storia del nostro tempo che mette a fuoco almeno tre aspetti importanti che negativi non sono. Parafrasando Max Weber e l’importanza dell’etica protestante per la nascita del capitalismo, Pekka Himanen individua nell’etica hacker una nuova etica del lavoro tipica della nascente società dell’informazione. Gli hacker si muovono già dalla fine degli anni Ottanta proponendo una propria visione della società basata sulla condivisione delle informazioni e sulla massima libertà d’espressione. “La vita è mia” è un motto che ispira uno stile tipico di una società individualistica, che si coniuga però con un obiettivo socialmente utile volto alla produzione di beni pubblici attraverso percorsi originali nella nuova arena sociale aperta da Internet.

Assange nasce come hacker, con una filosofia lontana da comportamenti criminali e all’insegna della trasparenza e della condivisione come dovere “professionale”. Qualcuno si spinge a definirlo il “ranger solitario dell’età dell’informazione”. In Rete si diffonde rapidamente la voce del progetto Wikileaks del quale si condividono i principi ispiratori e l’idea di una società più libera e partecipata. L’etica hacker sembra oggi trasformarsi in qualcosa di diverso, di più completo. Come afferma il cofondatore di Wikileaks – Daniel Bomscheit-Berg – si fa largo una nuova visione del mondo che vede il cittadino non più spettatore, ma attivo e partecipe, che cerca di trovare una soluzione creativa ai problemi (ad esempio l’asimmetria informativa).

Dal 2006 Wikileaks si configura come una piattaforma dove rendere note informazioni di pubblica utilità, garantendo l’anonimità delle fonti, e dove mettere in atto iniziative di “IT guerrilla”, allo scopo di onorare il diritto dei cittadini di conoscere cosa fa il governo. Non si tratta di un attacco alla sicurezza degli Stati. Si tratta di una originale forma di partecipazione dal basso in una nuova arena sociale che vuole dare voce a chi non ne ha e dove ci sono i margini per una redistribuzione del potere tra cittadini, governi e istituzioni.

Di sicuro non è esente da aspetti controversi, però ancora da valutare. Per certo, la legge “Icelandic Modern Media Initiative”, approvata a giugno 2010 all’unanimità su iniziativa popolare, è un esempio eclatante di partecipazione positiva e riformatrice dal basso. Dopo il crack finanziario dell’Islanda emergono le forti responsabilità di governo e banche locali al punto che la notizia viene censurata nel Tg nazionale, che invita però ad andare a leggere i documenti su Wikileaks.org. Da quel momento, alcuni attivisti locali chiedono la collaborazione di Assange e Bomscheit-Berg per redigere il testo presentato in Parlamento, facendo diventare l’Islanda il paradiso dell’informazione e la roccaforte del giornalismo investigativo. Wikileaks si caratterizza quindi come una piattaforma di disobbedienza civile che ha acquistato in poco tempo un ampio consenso e ha prodotto risultati concreti.

Wikileaks nasce con l’idea di chiamare comuni cittadini a contribuire con articoli di analisi critica su temi di interesse pubblico in stile collaborativo, sulla falsariga di Wikipedia. Ciò non avviene e si capisce di dover coinvolgere i professionisti per svolgere la funzione sociale di Wikileaks: informare e mettere in atto azioni che abbiano effetti di riforma positivi. Nelle parole di Manning, il sergente autore della più grande fuga di notizie dell’esercito americano, “non so cosa succederà, ma spero che si aprano discussioni, dibattiti e riforme”.

Assange e i suoi collaboratori presto realizzano anche di aver bisogno dei media tradizionali per avere maggiore visibilità e una più efficace diffusione delle notizie. Nel 2007, in collaborazione con il quotidiano inglese “The Guardian”, pubblicano documenti riguardanti la sottrazione di denaro pubblico a opera dell’ex presidente keniota Rap Moi e la pratica diffusa di usare pattuglie della morte. Quando un’ordinanza vieta al “Guardian” la pubblicazione relativa alla presunta discarica di rifiuti tossici in Costa d’Avorio, ci pensa Wikileaks. Tuttavia, Assange e soci rimangono nell’ombra fino al 2010, quando si sviluppa una strategia coordinata tra nuovi e vecchi media per la graduale rivelazione dei 400.000 files di Manning, apparsi contemporaneamente su più piattaforme.

Il rapporto che si sta instaurando spinge a ripensare la professione del giornalista, accentuando quel ruolo di supervisore e di cane da guardia dei poteri forti a beneficio dell’opinione pubblica. C’è da chiedersi, a questo punto, se Assange non rappresenti effettivamente l’uomo del decennio appena iniziato e non, come si tende a rappresentarlo, il lato oscuro di Internet.

 

Su questi temi si segnala, di prossima uscita sul numero 1/2011 della rivista, un articolo di Nicola Labanca.