Quale sia la temperatura dei rapporti fra governo e Quirinale, fra la premier e il presidente della Repubblica, è il dato interessante che emerge nel punto di incrocio tra il discorso di fine anno di Sergio Mattarella e l’incontro con la stampa della premier del 4 gennaio. Difficile parlare del primo senza considerare il secondo. 

Si è davvero tenuto lontano Mattarella dalle questioni che scottano nel rapporto con il governo Meloni? Davvero si può dire che il presidente della Repubblica abbia ignorato il dossier riforme, l’attacco, reiterato, del presidente del Senato La Russa alla “fisarmonica”, ovvero alla natura estensibile e variabile dei poteri del capo dello Stato? Inevitabilmente, le risposte possibili si specchiano nelle strategie con cui Giorgia Meloni si prepara a fronteggiare l’ultima trincea: quella che Mattarella sta scavando a protezione del ruolo, su fondamenta identitarie comunque diverse dall’alfabeto della destra meloniana, con richiami all’unità e azioni concrete, ad esempio il monito ad assecondare le richieste dell’Europa con cui ha accompagnato la promulgazione del decreto di proroga delle concessioni per gli ambulanti.

Alcuni passaggi del discorso di Mattarella hanno acquistato particolare peso politico, rivelandosi tutt’altro che lontani dai punti di attrito

Molti osservatori hanno sottolineato come Mattarella abbia “volato alto”, si sia concentrato sui grandi temi delle guerre, e della pace da sottrarre al buonismo, della violenza e dei doveri e responsabilità di ciascun cittadino, della partecipazione con il voto alle scelte politiche e si sia invece tenuto prudentemente “distante” o abbia deliberatamente tralasciato alcuni argomenti: l’Europa (Nadia Urbinati, su “Domani”), la giustizia (soprattutto Filippo Facci, su “Il Giornale”). Il capo dello Stato, nella lettura più condivisa, al di là delle appartenenze culturali o politiche, avrebbe semplicemente mandato un messaggio di stabilità dell’istituzione che presiede, di conferma del ruolo di garante e anche, sotto traccia, deducibile nel complesso – e anche grazie a qualche indiscrezione di insider – l’intenzione di concludere il secondo settennato senza subordinate. Premierato o non premierato, insomma. Tuttavia, a distanza di qualche giorno, inseriti in un dibattito pubblico più ampio e soprattutto visti in controluce rispetto alla conferenza stampa della presidente del Consiglio, alcuni passaggi del discorso di Mattarella hanno acquistato particolare peso politico, rivelandosi tutt’altro che lontani dai punti di attrito. Anzi in qualche modo anticipandoli. In particolare quello sul significato di unità della Repubblica “non come risultato di un potere che si impone”, ma come “modo di essere. Di intendere la comunità nazionale… Un atteggiamento che accomuna perché si riconosce nei valori fondanti della nostra civiltà, solidarietà libertà, uguaglianza, giustizia, pace. I valori che la Costituzione pone alla base della nostra convivenza. E che appartengono all’identità stessa dell’Italia”. Principio generale, ma non per questo vago, con una valenza di controcanto complessivo ai contenuti, ai richiami identitari della destra, allo stile e anche alla comunicazione di Giorgia Meloni, confermata in una conferenza stampa in cui si è mostrata sempre rivendicativa, pronta all’attacco delle opposizioni, all’evocazione di nemici, fino al punto di alludere a imprecisati ricatti.

Il 28 dicembre, un editoriale di Ernesto Galli della Loggia sul “Corriere” aveva del resto illuminato e criticato proprio questa tendenza: la preferenza della premier, dominata da “incontenibile aggressività” e tentata, almeno finora, dal “settarismo di partito”, per un’idea di Nazione “non come presupposto di una necessaria unione” ma come “fatale terreno di uno scontro, perenne preludio di una guerra civile”. Lettura condivisa dall’ex presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato in una successiva intervista su “Repubblica”.

Il richiamo di Mattarella all’unità come “modo di essere” è apparso sottintendere analoghe preoccupazioni e analisi. Quasi fosse un invito alla premier a rivolgersi agli italiani, non a Fratelli d’Italia. Secondo un metodo raccomandabile per tutti i dossier, a cominciare dalle riforme istituzionali. E tuttavia del tutto ignorato da una conferenza stampa in cui la premier ha ribadito l’obiettivo dell’elezione diretta del presidente del Consiglio giurando contemporaneamente, a dispetto delle valutazioni della stragrande maggioranza dei costituzionalisti di diverse aree culturali, che non saranno toccati i poteri del Quirinale. Una contraddizione resa più smaccata dall’offensiva contro i governi tecnici trasformati nel grande nemico della politica. Fiancheggiata dalla campagna del quotidiano di area, “La Verità”, contro lo scomparso Giorgio Napolitano da sempre accusato di complotto contro Berlusconi nel 2011, ma stavolta secondo intercettazioni illegittime distrutte e tuttavia evidentemente non senza tracce.

In questo contesto le parole della premier sono apparse perfettamente in sintonia con quelle di La Russa, secondo cui “la riforma ridimensionerà l’utilizzo costante” degli “ulteriori poteri” del presidente, quelli cioè di non sciogliere le Camere in particolari situazioni. La fisarmonica, appunto. Un ridimensionamento a tavolino dei pesi politici.

Meloni in tre ore di conferenza stampa non ha lasciato spiragli per il dialogo con le opposizioni auspicato dal Quirinale

Pronta al referendum – “non sarebbe sul governo o su di me, ma sul futuro” – decisa a fare dell’elezione diretta del capo del governo un tema della prossima campagna elettorale, Meloni in tre ore di conferenza stampa non ha lasciato spiragli per il dialogo con le opposizioni auspicato dal Quirinale, tanto meno per un comune sentire. Agli appuntamenti elettorali ed economici che si profilano per il 2024, Meloni si prepara puntando sul richiamo identitario per allargare il suo popolo, sulla costruzione di una nuova geografia politica e, nelle ambizioni, istituzionale. Si capisce anche dall’inusitata durezza con la quale ha risposto all’allarme di Giuliano Amato, da sempre vicino al capo dello Stato, per gli attacchi di parte della destra alla Corte costituzionale rispetto ad alcune decisioni sui diritti civili e delle minoranze, grimaldello per regressi democratici come da modelli polacchi e ungheresi.

In questo contesto che ben conosce, Mattarella ha costruito un percorso a tappe, tre discorsi di fine anno connessi fra loro: agli ambasciatori, alle alte cariche dello Stato, agli italiani per il 2024. In essi ha fornito elementi “macro” scolpendo il rischio per le democrazie nelle guerre in corso, nel riemergere nel terzo millennio delle logiche imperiali e nelle distorsioni dell’uso delle nuove tecnologie. Discorsi dal globale al locale, dall’internazionale al nazionale, costruiti per cerchi concentrici. Fino al messaggio disintermediato dell’ultimo giorno del 2023, a reti unificate, in cui ha rafforzato la trincea nell’unico modo possibile per evitare in quella sede lo scontro su punti specifici delle riforme istituzionali ed essere toccato in prima persona su una materia in cui è impegnato il Parlamento. Così anche sulla mancata ratifica del Mes: non un richiamo diretto, ma una diversa idea di Europa espressa nel sostegno netto al superamento dei poteri di veto dei singoli Stati e al passaggio al voto a maggioranza. Il controcanto sarà, ed è già stato, nelle cose: affidato a gesti e presenze, per esempio a Cutro, ma facendo attenzione a rappresentare se stesso come ultima trincea delle istituzioni, non del centrosinistra come qualcuno e la sua biografia politica potrebbero pericolosamente disegnarlo.