A nove mesi dal colpo di Stato del 25 luglio l’opposizione in Tunisia è in stallo: non dispone di mosse legali effettuabili. In questo periodo il presidente Kais Saied ha smantellato pezzo per pezzo le istituzioni democratiche concentrando il potere nelle proprie mani. Tra le sue ultime mosse: lo scioglimento del Parlamento, la nomina di una commissione incaricata di preparare una nuova costituzione da sottoporre a referendum il 25 luglio, l’avvio di un “dialogo nazionale” da cui vengono esclusi i principali partiti del Paese e soprattutto il decreto-legge 2022-22 con cui si attribuisce il potere di nomina dei membri dell’Istanza superiore indipendente per le elezioni (Isie) che dovrà organizzare il referendum stesso e in seguito le elezioni. Nel frattempo, un progetto di legge restrittivo della libertà di associazione ha provocato il sollevamento della società civile; l’ultimo rapporto di Reporters Sans Frontières vede la Tunisia scivolare di 20 posizioni rispetto al 2021 nella classifica della libertà di stampa e Amnesty International denuncia un decreto-legge che, con il pretesto di combattere la speculazione, di fatto inibisce la discussione sulla situazione economica del paese. Quest’ultima rimane gravissima: il tasso di disoccupazione si mantiene intorno al 16% e la disoccupazione giovanile è del 38,5%. Il tasso d’inflazione è arrivato al 7,2% nel mese di marzo 2022 e la guerra russo-ucraina ha prodotto la penuria di farina, semola e olio di semi.

La Tunisia, il Paese dove nel 2010 ebbe inizio la Primavera araba, sta scivolando piano piano verso un sistema di potere sempre meno democratico

In queste condizioni tre sono le domande da porsi per capire dove va il Paese.

In primo luogo, che fine hanno fatto le proteste popolari contro il carovita degli ultimi anni? Oggi in giro si sente perfino gente dire che “tutto va bene” o che “non è colpa del presidente”. Tra le tante spiegazioni che di questo vengono offerte - il carattere pacifico dei tunisini, la paura della repressione, l’assenza di alternative o il timore di “fare la fine dell’Algeria, della Libia o della Somalia” – è illuminante quella di una studentessa: “Sui social media del carovita non si parla più quindi penso (la spesa non la faccio io ma mia madre) che il problema sia stato superato.” Ai social media Kais Saied deve in larga parte la sua ascesa e sui social media, alla vigilia del 25 luglio, era in corso una violenta campagna anti-Ennahda. Oggi tuttavia l’opposizione a Kais Saied non può permettersi di soffiare sul fuoco del malcontento popolare come invece hanno fatto per dieci anni gli esponenti di un eterogeneo fronte “anti-islamico” anche perché, come spiega il deputato Majdi Karbai, l’opinione pubblica plasmata da anni di contrapposizione islam/laicità è poco sensibile a quella tra democrazia e non-democrazia.

I governi occidentali hanno deciso da tempo che un regime autoritario di stampo populista è preferibile a un regime democratico d’ispirazione islamica“L’unica cosa che potrebbe far cadere Kais Saied è una grave crisi economica”, aggiunge Karbai. Veramente, con un debito che ammonta all’85% del Pil e riserve valutarie ridotte al lumicino la crisi dovrebbe essere già in corso. La seconda domanda quindi è: come mai l’economia tunisina, già data sull’orlo del default alla vigilia del colpo di Stato, continua a reggere? Le misure correnti – stipendi e pensioni pagati in ritardo e decurtati, prestito obbligatorio, tassa di 30 centesimi sulle operazioni di cassa nei supermercati – non bastano certo. Gli esiti del negoziato in corso con il Fmi sono incerti e le spiegazioni correnti – “stampano carta moneta a tutto spiano” o “ricevono denaro e generi alimentari sotto banco, dall’Algeria, dagli Emirati, dall’Arabia Saudita” – sono poco più che congetture. In realtà, l’economia regge perché nessuno ha interessa a farla crollare: né i vicini regionali che vogliono ordine e stabilità, né i governi occidentali i quali hanno deciso da tempo che un regime autoritario di stampo populista è preferibile a un regime democratico d’ispirazione islamica. L’opposizione tunisina si trova così davanti a una seconda impasse: non può chiedere ai propri sponsor democratici di sospendere gli aiuti affamando il popolo ma sa che gli aiuti rafforzeranno il regime.

Di fatto per le cancellerie come per gli esperti internazionali Kais Saied è ormai la figura di riferimento a cui si chiede solo di darsi una facciata presentabile. E questo ci porta alla terza domanda: quanto presentabile? L’impressione è che ci si accontenterebbe di poco. Giuristi e politici ancora dibattono se si può parlare di “colpo di Stato” e hanno finora preso per buona la “roadmap” di Kais Saied e tutti i provvedimenti che l’hanno preceduta e accompagnata. Solo la presa di controllo presidenziale dell’Isie ha fatto traboccare il vaso: il servizio diplomatico dell’Ue ha allertato la Commissione di Venezia (il suo organo consultivo) che ha reso un parere urgente in merito. Vi si legge che – se il presidente proprio insiste per indire un referendum costituzionale in condizioni più che dubbie sul piano della legalità e degli standard internazionali – il decreto-legge 2022-20 va abrogato e una serie di condizioni “minime” garantite (tra cui tempi più lunghi, coinvolgimento di tutte le forze politiche e sociali, campagna referendaria aperta, quorum, osservatori internazionali). Tale parere, quale che ne sia il riscontro, non sembra aiuti l’opposizione tunisina a superare la sua terza impasse: partecipazione o boicottaggio delle urne. La prima si configurerebbe come legittimazione dell’operato di Kais Saied; il secondo verrebbe presentato come un rifiuto di confronto con i desideri del popolo (ma è di queste ore la notizia che Kais Saied ha respinto il parere della Commissione di Venezia, ha dichiarato i suoi membri persone non gradite nel Paese e sospeso la collaborazione della Tunisia con la commissione stessa, di cui il Paese è membro).

La deputata Jamila Ksiksi – la quale, a differenza della maggioranza orientata al boicottaggio, propenderebbe per una mobilitazione elettorale massiccia contro la nuova Costituzione – osserva che la Tunisia si sta rivelando ancora una volta un laboratorio politico in cui si gioca una inedita partita. L’esito, salvo imprevisti, non sarà uno scenario egiziano o algerino e con ogni probabilità nemmeno uno scenario greco: i Paesi esclusi a priori dal club occidentale vengono trattati con più indulgenza per quanto riguarda gli standard democratici ma lo stesso può applicarsi, se necessario, anche agli standard economici. In compenso, la Tunisia per un bel po' non tornerà ad essere un Paese democratico. Lo stallo può prolungarsi perché esso non è il problema: è la soluzione. E nel gioco degli scacchi permette al giocatore messo peggio di chiudere una partita in parità anziché subire lo scacco matto, ovvero lo scacco alla democrazia.