Il ritorno dell’usato (poco) sicuro. Le elezioni anticipate giapponesi hanno sancito un risultato scontato i cui effetti futuri sono, però, tutt’altro che chiari. I Liberaldemocratici (Ldp), al governo quasi ininterrottamente dal 1955 al 2009, hanno ottenuto una vittoria schiacciante sui rivali del Partito democratico (Dpj) conquistando 294 seggi contro 57. In virtù dei 31 eletti dell’alleato minore (il Nuovo Komeito) la «balena gialla» del Sol Levante può controllare la maggioranza dei due terzi della Camera bassa e, quindi, tornare a governare da una posizione di predominio. 

La vittoria del Ldp si fonda, tuttavia, su un cupo presupposto: il vasto ed esplicito malcontento popolare verso una classe politica sempre coinvolta in scandali giudiziari, subalterna alle grandi burocrazie, incapace di invertire la bassa crescita economica del Paese e divisa sul ruolo internazionale del Giappone (e sul suo rapporto con Washington) a fronte dell’attivismo cinese e dei test missilistici nordcoreani. Una situazione esacerbata dal totale fallimento governativo del Dpj, infatti, la mancata rivoluzione economica e morale e la disastrosa gestione dell’affaire Fukushima hanno accentuato l’insoddisfazione generale.

Il calo dell’affluenza elettorale e l’aumento della frammentazione partitica sono i due indicatori che, più di tutti, danno il senso della realtà. Il successo del Ldp, infatti, non significa una definitiva svolta bipartitica del Giappone, ma piuttosto la scelta di tornare ad affidarsi (con molto scetticismo e poche certezze) al meno peggio. È la consapevolezza di una società disillusa e, per certi versi, timorosa: se il nuovo non ha saputo cambiare, il vecchio, malgrado i suoi peccati, rimane comunque l’approdo più rassicurante.

Il nuovo Primo ministro, Shinzo Abe, già a capo dell’esecutivo nel 2006-2007, ha vinto le elezioni prospettando un mix di continuità e rinnovamento rispetto alla vecchia era Ldp. I suoi capisaldi sono la ripresa della produzione di energia nucleare, la normalizzazione della politica estera (rivendicazioni nazionalistiche più nette, soprattutto in chiave anti-cinese, e riavvicinamento agli Stati Uniti), e una svolta neo-keyenesiana in politica economica (svalutazione dello yen per sostenere l’export, nonché espansione monetaria e progetti infrastrutturali per stimolare i consumi interni, anche a costo di limitare l’autonomia della Banca centrale). Il progetto di lotta alla deflazione costituisce un’ulteriore rivoluzione per il Giappone in quanto segna una totale discontinuità con il conservatorismo economico adottato, sin dal 1985, con il Plaza Agreement, ed è, infatti, stato salutato con forte entusiasmo dalla Borsa di Tokyo nel day after elettorale.

Ma il programma di «riscossa nazionale» di Abe presenta diverse incognite, interne ed esterne. Innanzi tutto la sostenibilità del debito pubblico (il maggiore del mondo in termini relativi, circa il 200% del Pil) e dei programmi pensionistici e sanitari, soprattutto per una società sempre più anziana e ostile a maggiori flussi migratori. In secondo luogo, il rischio che le promesse elettorali siano nuovamente annacquate dai compromessi di coalizione, dalla persistente debolezza della classe politica, e dalla resistenza dei grandi apparati. Vi è infine il dibattito, del tutto trasversale e incerto, sulla normalizzazione della politica estera: i vincoli pacifisti della Costituzione, l’ambiguo rapporto di abbandono/intrappolamento con gli Usa, e l’atteggiamento strategico nei confronti di Corea del Nord e Cina, la quale, malgrado il roboante sciovinismo del candidato Abe, rimane il principale partner commerciale di Tokyo.

Assistiamo all’ennesima tappa della convulsa transizione post-bellica giapponese: una potenza economica in una fase di relativo declino, ancora legata a istituzioni e dinamiche politiche della Guerra Fredda che, nonostante la consapevolezza, fatica terribilmente a cambiare per adeguarsi in maniera efficace a un ambiente internazionale in radicale trasformazione. Un quadro, in effetti, non del tutto alieno alle nostre latitudini.