Russia e Nato in Siria. L’escalation dell’intervento russo in Siria, che in precedenza si era limitato a un sostegno logistico-militare, diplomatico e finanziario al governo siriano, mostra come l’interesse di Mosca per la Siria e il regime ba’thista risieda nella sopravvivenza di un alleato di lunga durata che gli garantisce una presenza limitata ma cospicua nel Mediterraneo orientale e in Medioriente. Mosca e Damasco, inoltre, condividono una lunga avversione nei confronti delle forze del cosiddetto Islam politico, brandito come “terrorista” tout court: tanto in Cecenia quanto nella guerra in Siria non hanno avuto problemi nel radicalizzare il conflitto, in modo tale da favorire le frange estremiste e radicali, peraltro comunque presenti, e poi muovere loro la “guerra al terrorismo”.

Dopo oltre quattro anni di conflitto, le forze di al-Assad, esercito regolare e milizie, hanno raggiunto i limiti delle loro capacità, e sono in grado più di difendere i rispettivi villaggi che di conquistare territori nemici; Hizb’allah è forte e determinante, ma anch’esso con capacità limitate per numero di uomini; l’Iran si è concentrato sull’accordo sul nucleare e ora nel dare slancio allo sviluppo produttivo interno in vista della fine delle sanzioni economiche occidentali. Turchia, Arabia Saudita, altri Emirati del Golfo, Stati Uniti e Francia hanno rafforzato la cooperazione dall’inizio del 2015 nel sostegno militare e logistico alle milizie anti-Assad: tutte, direttamente o indirettamente, estremiste e moderate. Da qui l’avanzata della coalizione di forze “Esercito della conquista” nella provincia agricola di Idlib, nel nord-ovest del Paese, oppure del “Fronte del Sud” ai confini con Israele e Giordania. Nel nord, i curdi consolidano le proprie posizioni, nonostante la Turchia.

L’intervento di Mosca risponde a due esigenze, tattiche e strategiche. Da un lato, con Teheran contribuisce ai piani di rafforzamento di Damasco nella fascia occidentale del Paese contro i piani dei ribelli e dei loro alleati. Dall’altro si iscrive in una strategia tanto semplice quanto lineare. I gruppi terroristici salafiti-jihadisti come Al-Qaida e soprattutto lo Stato islamico nelle sue diverse conformazioni in Iraq e Siria hanno avuto successo in quegli spazi e in quei tempi in cui le istituzioni statali sono collassate, con esse l’ordine pubblico e la società civile locale è stata repressa dalle diverse milizie criminali. Dove lo Stato nelle sue istituzioni e/o la società civile reggono, i jihadisti faticano o non riescono ad entrare. Mosca, come Damasco, predilige lo Stato. Per i russi, lo Stato in Siria è ancora rappresentato dal governo e dall’esercito di Damasco; dunque, con tutti i limiti del caso, sono loro ad essere il referente, il punto d’appoggio contro i gruppi jihadisti. La minaccia principale per il governo è rappresentata dai ribelli di Jabhat al-Nusra e altri del malandato Esercito libero siriano: sono siriani, radicati nel territorio e nelle comunità, con esperienze di governo. Da qui la decisione di Mosca di sostenere Damasco e Teheran nell’attaccare prima i ribelli, ed Al-Qaida. Del resto per Washington, Parigi, Londra, Ankara e le capitali dei Paesi arabi del Golfo è abbastanza difficile uscire allo scoperto e condannare i russi per aver colpito Al-Qaida, o gruppi affini. Finora cercano di difendere quelle forze moderate che hanno addestrato e armato, ma che poi sul campo hanno collaborato con Jabhat al-Nusra di Al-Qaida, oppure sono state eliminate proprio da Al-Qaida. Ancora una volta nella storia contemporanea della Siria, gli Stati Uniti non hanno saputo trovare un partner locale sufficientemente forte, o “presentabile”, per poter entrare nel Paese.

E il cosiddetto Stato islamico? Nelle parole tutti lo combattono, nei fatti tutti lo tengono da parte in quanto utile, anzi “mostro” perfetto con cui giustificare interventi e alleanze altrimenti ingiustificabili. Se prima c’era Al-Qaida, ora c’è l’IS. Se Mosca, Damasco e Teheran riusciranno nell’intento di sconfiggere le forze ribelli, e Jabhat al-Nusra, o schiacciarle in alcune sacche periferiche del nord-ovest del Paese, allora potrà crearsi una situazione per cui il conflitto in Siria verrà “semplificato” in una lotta tra Damasco e lo Stato islamico. Come da sempre auspicato nella capitale siriana.

Probabilmente i Paesi Nato non rischieranno uno scontro diretto con la Russia per difendere Idlib, i pochi alleati dell’Esercito libero siriano, oppure Jabhat al-Nusra di Al-Qaida: al massimo potranno sostenere una “guerra per procura”, come almeno in parte hanno fatto finora. Se questi saranno sconfitti, difficilmente i Paesi Nato potranno poi ergersi a difensori dello Stato islamico come contrappeso all’alleanza Damasco-Teheran-Mosca. Nel 2012 Washington considerava un emirato islamico tra Iraq e Siria come ostacolo alla supposta espansione dell’Iran sciita; nella forma dello Stato islamico, l’emirato è sfuggito al controllo; i “moderati”, se non la stessa Jabhat al-Nusra, possono ricoprire un ruolo simile, ma ora l’intervento di Mosca rischia di mandare tutto all’aria. A quel punto saranno costretti a convergere de facto sulle posizioni di Mosca e Teheran.

Di fronte al fatto compiuto e all’escalation dei rischi connessi, forse si apriranno spiragli per un negoziato politico che va ben al di là delle sorti di Bashar al-Assad: vista la situazione tanto Mosca quanto Teheran considerano che sia indispensabile oggi: molto meno domani. Buon viso a cattivo gioco, le diplomazie occidentali iniziano a convergere sul punto di compromesso. Non ancora, invece, i loro alleati regionali in Turchia e nel Golfo. La questione sarà però individuare le controparti ribelli ancora sul campo e disposte a un compromesso, obtorto collo.

Mosca corre però grandi rischi: sottovalutare le capacità di resistenza dei ribelli locali che difendono i propri territori, ed essere oggetto di una guerriglia “per procura” prolungata nel tempo.