Sono arrivato nel Kurdistan iracheno, proprio dall’Italia, il 23 settembre. Arbil, la capitale del governo regionale del Kurdistan, era tranquilla: a parte i manifesti dei candidati affissi ai muri, non c’erano altri segni evidenti delle elezioni per il Parlamento iracheno previste per ottobre.

La campagna elettorale è poi partita, senza grande intensità, non solo in Kurdistan ma anche nel resto dell’Iraq. A dominare sono stati apatia, boicottaggio e l’astensione: «perché dovrei votare», erano le parole d’ordine per le strade. L’affluenza alle urne è stata bassa, ma non molto inferiore rispetto alle precedenti elezioni del 2018. La mancanza di entusiasmo potrebbe aver contribuito a rendere la campagna elettorale meno violenta e più tranquilla, ma rappresenta anche un chiaro segno di rabbia, insoddisfazione, frustrazione e disillusione, soprattutto testimonia la mancanza di fiducia verso le attuali élite al potere e verso il sistema. Ormai si è consolidata una maggioranza disincantata e i partiti possono raccogliere solo il voto dei fedelissimi, in primis gli stipendiati. Non sorprende che il numero di coloro che abbiano espresso il loro voto e il numero degli impiegati del settore pubblico siano uguali: circa nove milioni. Questo rende le elezioni e la democrazia irachene una delle imprese più costose e corrotte al mondo.

Nessun risultato, soprattutto nelle aree urbane, metterà seriamente in dubbio la legittimità del governo. Sebbene proprio la crisi di legittimità sia stata la ragione principale delle elezioni anticipate insieme alla nuova legge elettorale: entrambe richieste dai manifestanti nell’ottobre nel 2019. Assume tratti davvero ironici il fatto che questa nuova legge potrebbe contribuire a rafforzare la legittimità del governo.

3249 candidati, di cui 951 donne, si sono sfidati per 329 seggi. Erano elezioni diverse per una serie di ragioni. Innanzitutto, si sono tenute: l’Iraq potrebbe essere uno dei pochissimi Paesi del mondo arabo, se non l’unico, a gestire un pacifico trasferimento di potere. Tuttavia, ogni speranza sarà vana se a prevalere sarà lo status quo. Dopo la richiesta dei manifestanti nell’ottobre 2019, il Parlamento iracheno ha approvato una nuova legge elettorale. Essa ha ampliato il numero dei collegi elettorali da 18 a 83, che è anche il numero minimo di seggi assegnati alle donne, il che significa che ogni distretto elettorale invierà almeno una donna al parlamento. Si potrebbe determinare così un aumento del numero di donne parlamentari (che potrebbero ottenere più di novanta seggi) ma non necessariamente una vera trasformazione: la maggior parte delle nuove parlamentari saranno elette dai partiti tradizionali, che invece di rappresentare le donne e le loro cause, le danneggiano. Ad esempio, la violenza domestica non è solo un grosso problema in Iraq, è anche legalmente sanzionata. Fatta eccezione per la Regione del Kurdistan, che ha una legge specifica contro la violenza domestica, l’articolo 41 del codice penale iracheno conferisce al marito il diritto legale di «punire» la moglie e ai genitori quello di educare i propri figli «entro i limiti prescritti dalla legge o costume». Questa legge non è diventata una questione elettorale e nessuna donna candidata si oppone. Al contrario, una candidata di un partito islamico nel Kurdistan iracheno ha sostenuto la poligamia durante la campagna.

La nuova legge elettorale mirava a salvaguardare la rappresentanza del singolo deputato: i parlamentari dovrebbero guardare al bene dei loro elettori, essere più attenti alle loro esigenze. Con collegi più piccoli si voleva dare la possibilità anche a candidati indipendenti, che hanno a disposizione pochi fondi, di fare campagna elettorale e magari di vincere. In questo modo, la nuova legge puntava a spezzare l’egemonia dei partiti sul sistema di governo. Questo obiettivo continua a essere difficile da raggiungere: i grandi partiti hanno a loro disposizione giornali e televisioni, un gran numero di clientele, gruppi armati privati ​​e il sostegno di poteri regionali. Perché l’attuale legge elettorale raggiunga questo scopo, gli elettori devono fidarsi di più dei candidati indipendenti, fatto non comune nella politica irachena. Tra la comunità sciita gli indipendenti o i candidati al di fuori dei partiti tradizionali hanno vinto più di venti seggi, ma non è stato così tra sunniti e curdi. Nel Kurdistan iracheno non è stato eletto un solo candidato indipendente. Mentre parlavo con le persone, mi sono reso conto che sostengono che gli indipendenti «non sono completamente indipendenti, sono ombre dei tradizionali scaglioni di partito stabiliti». Molti credono che in un Paese così instabile come l’Iraq un parlamentare indipendente possa finire schiacciato. Dietro queste opinioni consolidate c’è una lunga tradizione per la quale i forti dovrebbero avere potere: una mentalità assai diffusa tra curdi e sunniti, ma in calo tra i giovani sciiti.

Il risultato delle elezioni mostra che i collegi elettorali sciiti non hanno obbedito alla richiesta del grande ayatollah Sayyid Ali al-Sistani di andare a votare. Si tratta di un cambiamento significativo tra i giovani sciiti

Il risultato delle elezioni mostra che i collegi elettorali sciiti non hanno obbedito alla richiesta del grande ayatollah Sayyid Ali al-Sistani di andare a votare. Si tratta di un cambiamento significativo tra i giovani sciiti. Dopo anni di dominio dell’Islam politico, c’è una richiesta di laicité alla francese. La nuova legge, come molte altre leggi nel Paese non sono pienamente attuate, ad esempio in base ad essa, i partiti politici legati a milizie paramilitari non dovrebbero partecipare alle elezioni, ma ciò nonostante questi partiti non solo hanno partecipato, ma sono i principali vincitori, come Saeroun, il partito di Moqtada al-Sadr.

Per evitare o almeno ridurre al minimo le frodi elettorali, l’attuale sistema di voto è troppo tecnico e riduce le possibilità di un suffragio davvero universale. L’elevata complessità della gestione delle macchine per il voto ha reso le operazioni di voto complesse. Migliaia di macchine non hanno funzionato per oltre tre ore ed era stato programmato di chiudere alle 18:00 in punto. Quindi, la durata del voto è scesa a meno di otto ore. La legge attuale richiede organizzazione e concentrazione degli elettori. Un certo numero di partiti politici con voti più alti ha guadagnato meno seggi e viceversa. Il partito di Sadr e il Kdp (il Partito democratico del Kurdistan) hanno perso voti numericamente ma hanno guadagnato più seggi: grazie all’organizzazione, alla concentrazione e ai boicottaggi.

Ci sono tante ragioni dietro la bassa affluenza alle urne. La nuova legge richiedeva ai potenziali elettori di registrarsi più di una volta, contribuendo così a diminuire il numero delle iscrizioni. Ma fattori come la corruzione sistematica, gli interessi personali, il monopolio dell’élite sul governo e sull’economia, la mancanza di spazio per i nuovi arrivati, sia politicamente che economicamente, hanno contribuito al boicottaggio e all’astensione.

Va anche detto che questa tornata elettorale, a differenza delle precedenti, non è stata segnata da grandi brogli. Ma il Paese è rimasto diviso, il voto non ha superato i settarismi e le divisioni etniche: proprio aver reso i collegi più piccoli, ha fatto sì che la maggior parte di essi non fosse multietnica o multiculturale. Le comunità sciite hanno votato per i partiti sciiti, i sunniti hanno votato per quelli sunniti e i curdi, infine, hanno votato per quelli curdi. I partiti politici basati sulle idee non riescono a ottenere alcun seggio. Oltre a queste grandi divisioni, ogni comunità, da quella piccola come gli yazidi agli sciiti, è frammentata in modo rilevante. Ci sono molte ragioni dietro questa frammentazione, locale e regionale, storica e di sicurezza, che le potenze regionali confinanti sfruttano, riproducendo così le grandi politiche imperiali nei confronti delle periferie.

Un certo numero di indipendenti ha ottenuto un seggo, ma non sono abbastanza numerosi e non vi è alcuna garanzia che saranno in grado di organizzare un gruppo e stabilire l’agenda del Parlamento

Per concludere, la combinazione di molti fattori (nuova legge elettorale, bassa affluenza alle urne, niente o meno brogli) hanno reso questa elezione diversa dalle precedenti. La nuova legge ha influito sul risultato, ma i cittadini avranno bisogno di tempo per utilizzarla a proprio vantaggio. Un certo numero di indipendenti ha ottenuto un seggo, ma non sono abbastanza numerosi e non vi è alcuna garanzia che saranno in grado di organizzare un gruppo e stabilire l’agenda del Parlamento. Ci sono sforzi per creare un blocco Tshrin (ottobre, dal nome del mese in cui scoppiarono le ultime proteste), che potrebbe essere il secondo gruppo più grande in Parlamento. Saranno più attenti ad ogni passo, per non perdere legittimità che gli arriva dalle mobilitazioni di piazza. In passato i leader politici si auto-eleggevano e raccoglievano numeri astronomici di voti. Questo fenomeno non esiste più, poiché i leader non sono sicuri di raccogliere un numero elevato di voti in una circoscrizione molto piccola.

Il risultato elettorale chiarisce ulteriormente come la maggioranza del popolo iracheno sia frustrata dalle milizie e dai loro partiti. Hanno espresso il loro desiderio rimanendo a casa. In Kurdistan la situazione non è poi così diversa. Come in Iraq i cittadini hanno boicottato le elezioni, determinando così la conquista di seggi per il Kdp e per Neway Nwe (Nuova generazione), nonostante la notevole diminuzione dei loro voti in valore assoluto, mentre la principale vittima delle elezioni è stato Gorran (Movimento per il cambiamento) che non ha ottenuto seggi. Si è trattato di un messaggio chiaro degli elettori che hanno così punito il loro passaggio da partito di opposizione a partito al governo, realizzato negli ultimi anni.

Nel resto del Paese, infine, l’esito sfavorevole per le milizie filo-iraniane potrebbe rendere la situazione più violenta: i gruppi armati si affideranno ad altri strumenti per mantenere le loro posizioni e soprattutto i loro guadagni economici.

 

[Traduzione di Fernando D'Aniello]