Alcuni mesi fa Angelo Panebianco ha sollevato sulla rivista “il Mulino” la questione se in Italia vi sia stato un periodo neoliberista (Diverso parere. A proposito del neoliberismo). La sua conclusione era sostanzialmente negativa: in Italia non vi è stata alcuna fase neoliberista. Non condividendo questa conclusione, in luglio ho pubblicato un articolo, sempre su questa rivista (Sul neoliberismo, in Italia), in cui sostenevo che in realtà anche in Italia c’era stata una fase neoliberista, seppur sui generis. Luciano Capone e Carlo Stagnaro sono allora intervenuti su “Il Foglio” (La sinistra e i conti col neoliberismo) per confutare alcune affermazioni contenute nel mio articolo. Ne è seguito uno scambio su “Il Foglio” del 4 agosto (Sul neoliberismo italiano), in cui ho risposto alle obiezioni rivoltemi e a cui ha fatto seguito una controreplica dei due autori. Due giorni dopo è uscito un articolo di Nicola Rossi sempre su “Il Foglio” (Si fa presto a dire liberismo, ma le riforme non bastano), in cui, pur non menzionandomi direttamente, cita o parafrasa parti dei miei due articoli sul neoliberismo in Italia, per criticarli. Prima di rispondere alle ultime critiche di Capone e Stagnaro e all’articolo di Nicola Rossi ho preferito attendere per vedere se vi fossero altre prese di posizione. Poiché a mia conoscenza non ve ne sono state, approfitto dello spazio concessomi per sviluppare alcune considerazioni aggiuntive e chiudere – almeno per il momento – la discussione.

Direi che lo scambio con Capone e Stagnaro è stato proficuo, anche se poi, nonostante alcune reciproche concessioni, ciascuno di noi resterà sulle sue posizioni. C’è stato comunque accordo sul fatto che ci sia stato un periodo neoliberista in Italia, anche se abbiamo opinioni diverse sulla sua durata. Per il sottoscritto tale periodo è stato piuttosto prolungato nel tempo (dalla seconda metà degli anni Ottanta del secolo scorso alla metà del secondo decennio di questo secolo, in linea con quanto è successo in altri Paesi europei) ed è stato il frutto sia di misure determinate da sviluppi internazionali sia di scelte politiche effettuate dalle classi dirigenti del nostro Paese. Capone e Stagnaro invece considerano che il periodo neoliberista sia stato molto più breve (il decennio che portò all’introduzione dell’euro), con le riforme neoliberiste sostanzialmente determinate dalla necessità dell’Italia di entrare nell’euro.

Detto questo, devo però a Capone e Stagnaro una risposta su tre punti, perché nella loro controreplica affermano che, “dati alla mano”, su questi punti “Dilmore attribuisce al neoliberismo e al centrodestra delle responsabilità che non sono né dell’uno né dell’altro perché il fatto non sussiste”. Questi punti sono: 1) la riduzione o meno della progressività del sistema fiscale italiano durante il periodo neoliberista; 2) se l’evasione fiscale sia stata incoraggiata dalla retorica neoliberista; 3) se nei Paesi “statalisti”, di cui l’Italia sarebbe il modello di riferimento, la crescita economica sia stata inferiore di quella di Paesi in cui la presenza dello Stato è limitata.

Per quel che riguarda il primo punto, citando lo studio di Baldini, Giannini e Pellegrino (Progressività dell’Irpef: non dipende dal numero delle aliquote), Capone e Stagnaro notano che la riduzione delle aliquote marginali non ha ridotto la progressività dell’imposta sul reddito, anzi l’ha aumentata. Non ho problemi a concedere su questo punto, anche perché non inficia le mie considerazioni generali. Nell’articolo pubblicato sul Mulino scrivevo “nella fase dell’egemonia della narrativa neoliberista, in linea con gli altri Paesi avanzati, anche in Italia la progressività dell’imposta sul reddito si è ridotta significativamente, con l’aliquota massima che è passata dal 72% del 1982 al 43% attuale”. Nella sostanza, questo riferimento all’imposizione fiscale serviva per confermare una delle tesi centrali del mio articolo, secondo il quale, anche l’Italia, in linea con gli altri Paesi avanzati, aveva seguito una politica di stampo neoliberista per quel che riguarda le aliquote fiscali. Tuttavia, così facendo, avevo compiuto una generalizzazione indebita. Mentre in molti Paesi avanzati la riduzione delle aliquote si era tradotta in una riduzione della progressività dell’imposizione, questo non sembra essere stato il caso dell’Italia. Il testo corretto avrebbe dunque dovuto essere “[…] in linea con gli altri Paesi avanzati, anche in Italia il numero delle aliquote marginali dell’imposizione sul reddito fu ridotto significativamente e l’aliquota massima passò dal 72% nel 1982 al 43% attuale”. La riduzione delle aliquote marginali più elevate ha certo ridotto il contributo redistributivo delle persone con redditi molto elevati (un problema irrisolto non da poco), ma ha portato nell’aliquota attuale del 43% molti più contribuenti, per cui la redistribuzione rispetto al passato avviene soprattutto dalle classi medio-alte a quelle con livelli di reddito basso o medio-basso. Però, se la mia generalizzazione sulla riduzione della progressività dell’imposta sul reddito era sbagliata, la generalizzazione di Capone e Stagnaro secondo cui il fisco italiano è stato più progressivo nel periodo neoliberista di quanto non lo sia stato negli anni Settanta solo perché l’Irpef è diventata più progressiva resta tutta da dimostrare, non da ultimo perché altre imposte con natura progressiva sono state nel frattempo ridotte o eliminate. Tuttavia il punto che facevo non riguardava tanto la progressività dell’imposizione e la sua desiderabilità, quanto piuttosto di far notare che, per quel che riguarda l’imposizione sui redditi, le misure adottate dall’Italia erano in linea con i cambiamenti introdotti in altri Paesi avanzati durante il periodo neoliberista (se poi, tralasciando qui i gravi problemi di equità orizzontale, questo ha prodotto nel caso italiano un aumento della progressività, tanto meglio. Non ho mai sostenuto che strumenti di politica economica neoliberista siano da scartare a priori, poiché molto dipende dall’uso che se ne fa) .

Sulla questione dell’evasione dell’Iva, per Capone e Stagnaro è sufficiente constatare che essa si è ridotta nel tempo per confutare che in Italia vi sia stato (e vi sia) uno “starve-the-beast fai da te”, alimentato anche da una certa retorica neoliberista. Su questa questione le nostre valutazioni continueranno a divergere. L’evasione dell’Iva era comunque destinata a diminuire nel tempo grazie all’accresciuta capacità di procedere a controlli incrociati e ad altri metodi di verifica. Inoltre, i vincoli fiscali dettati dalla necessità di rispettare i parametri di adesione all’Unione economica e monetaria, nonché l’enorme debito pubblico, non potevano non spingere i governi in carica (o almeno alcuni di essi) a cercare di ridurre una tale evasione, quantomeno per evitare di aumentare le imposte o ridurre spese essenziali. Quel che è impressionante di fronte a vincoli così stringenti è che l’evasione si sia ridotta di così poco (su un quarantennio le perdite erariali ammontano a centinaia di miliardi di euro), lasciandoci alla pari di Paesi come la Grecia o Malta. L’inefficienza amministrativa ha giocato certo un ruolo, ma non è certo solo – o soprattutto – colpa dell’Agenzia delle Entrate. Per cui confermo il mio giudizio che, nel caso italiano, la retorica neoliberista dello starve the beast ha fornito una copertura ideologica a fenomeni di malcostume diffuso e, insieme ai continui condoni fiscali introdotti dal centrodestra, ha contribuito a mantenere a livelli elevati l'evasione fiscale (dell’Iva e non solo).

Infine, Capone e Stagnaro pensano di avere la prova per contraddire l’affermazione che Paesi “statalisti” (la categoria è loro, non mia) possano crescere altrettanto rapidamente che Paesi con una più debole presenza dello Stato. Infatti, ci ricordano Capone e Stagnaro, nel 2021 Danimarca, Svezia e Norvegia non sarebbero propriamente statalisti, perché avrebbero una spesa pubblica sul Pil “molto inferiore” a quella italiana. Qui Capone e Stagnaro compiono un doppio errore. Il primo è che i dati del 2021 sono fortemente distorti dalla pandemia. È vero che nel 2021 l’Italia ha una spesa pubblica superiore a quella dei tre Paesi menzionati, ma questo è dovuto all’impatto della pandemia e alla risposta di politica economica che ne è conseguita. Per esempio, la Svezia non ha avuto un lockdown e dunque la riduzione della spesa privata da un lato e l’aumento della spesa pubblica dall’altro sono stati molto più limitati rispetto all’Italia. Se si prendono i dati del 2019, i Paesi menzionati hanno tutti una spesa pubblica superiore a quella del nostro Paese. Per queste ragioni i dati del 2021 non possono essere presi come il periodo di riferimento. In realtà quest’ultimo non può essere un anno specifico, bensì dev’essere il trentennio di egemonia liberista. Se si prendono i dati pubblicati dall’Fmi non vi è dubbio che in questo periodo la spesa pubblica di Francia e Danimarca è significativamente più alta di quella dell’Italia, mentre Svezia e Norvegia hanno una spesa pubblica simile o leggermente più elevata di quella italiana. Inoltre, per essere puntigliosi, bisognerebbe far riferimento alla spesa primaria (vale a dire la spesa al netto degli interessi) e in questo caso non vi sono dubbi che la spesa pubblica primaria italiana è stata inferiore a quella dei quattro Paesi considerati. Di conseguenza, affermare che la spesa pubblica di questi Paesi nel periodo neoliberista fosse “molto inferiore” a quella dell’Italia è sbagliato. Dunque, la risposta alla questione se lo “statalismo” necessariamente comporta una crescita inferiore a quella dei Paesi con bassi livelli di spesa pubblica continua a restare negativa (inoltre va ricordato che qualità ed efficienza giocano un ruolo molto più importante della quantità).

Non potrei concludere questa mia risposta senza un accenno all’articolo di Nicola Rossi. La tesi principale dell’articolo è che il liberalismo, qui identificato con il (neo) liberismo (che per Rossi coincidono), avrebbe le soluzioni per l’Italia (e non solo), ma l’assenza di una cultura liberale/liberista tra le classi dirigenti e la popolazione in generale avrebbe fatto sì che le riforme adottate non abbiano portato i risultati sperati (“la vicenda degli ultimi venticinque anni è tutta qui. Riforme necessarie, forse, ma visibilmente insufficienti in assenza di una cultura della responsabilità, del rischio”). Insomma, o si crede nel liberalismo/liberalismo e nell’individuo come ci credettero Ronald Reagan e Margaret Thatcher o non vale neanche la pena cimentarsi nell’impresa riformatrice.

Non mi soffermerò qui, per ragioni di spazio, sull’identificazione tra liberalismo e (neo)liberismo e sull’affermazione di Rossi che la distinzione tra liberalismo e liberismo sia frutto del provincialismo italiano. Basti notare che negli Stati Uniti i “liberisti” (mi si consenta il termine provinciale) non si identificano con i “liberals”, ma piuttosto con i “libertarians” o i “conservatives”. Paese che vai, provincialismo che trovi. Quanto poi al fatto che liberalismo e liberismo non coincidono necessariamente, esiste un’enorme letteratura al riguardo. Mi limito qui a rinviare a un articolo di Gianfranco Pasquino apparso su “Domani” del 10 agosto (Apologia del (vero) liberalismo. Così le istituzioni proteggono i diritti), in cui viene presentata una visione del liberalismo molto diversa da quella suggerita da Rossi.

Veniamo però al punto centrale: le politiche (neo)liberiste, per potere avere un impatto, debbono essere realizzate da leader come Reagan e Thatcher che non credono tanto nel “potere” quanto nell’individuo (e, per mostrarlo, Rossi produce una serie di citazioni dei due leader). Però, se questo è il metro di giudizio, l’Italia avrebbe dovuto trovarsi ben posizionata, almeno per quel che riguarda l’Europa continentale. Infatti, Berlusconi è stato sicuramente il più reaganiano dei leader politici europei, nello stile di far politica come nella retorica. Nessun leader europeo non anglosassone gli si avvicina, se ci si limita ai discorsi, come fa Rossi. Basti pensare al discorso della discesa in campo: “Se ho deciso di scendere in campo con un nuovo movimento, e se ora chiedo di scendere in campo anche a voi, a tutti voi – ora, subito, prima che sia troppo tardi – è perché sogno, a occhi bene aperti, una società libera, di donne e di uomini, dove non ci sia la paura, dove al posto dell'invidia sociale e dell'odio di classe stiano la generosità, la dedizione, la solidarietà, l'amore per il lavoro, la tolleranza e il rispetto per la vita”. Inoltre, Berlusconi esercitò il “potere” in modo molto più selettivo e difensivo (i maligni direbbero difensivo, ad personam) di Reagan e Thatcher. Ciò nonostante, come notano Capone e Stagnaro, l’esperienza dei governi Berlusconi è stata fallimentare, “almeno in punto di neoliberismo”. È dunque il modo in cui è stato esercitato il “potere” (per usare la categoria di Rossi), o il tipo di politiche economiche concepite e realizzate (categoria che preferisco) ciò che spiega la differenza di risultati, non solo per quel che riguarda Reagan e Thatcher, ma anche riguardo i molto meno ispirati leader conservatori europei.

Per concludere, la mia riflessione sul periodo neoliberista in Italia era centrata su due considerazioni. La prima era che in Italia, come nel resto dei Paesi avanzati e un consistente numero di Paesi emergenti, c’è stata una fase neoliberista. La seconda considerazione era che durante questa fase si sono certo conseguiti alcuni risultati importanti, in primis l’adesione all’Unione economica e monetaria, ma, in una prospettiva comparata, le performance economico-sociali del nostro Paese sono state inferiori a quelle di altri grandi Paesi europei e di economie con una varietà di capitalismo simile alla nostra. Questo probabilmente perché il tipo di politiche neoliberiste adottate (e di converso quelle che non furono attuate o che non furono considerate una vera priorità), nonché le modalità e sequenza della loro attuazione, non riuscirono a produrre un regime di crescita sufficientemente robusto, tale da consentire al nostro Paese di avvantaggiarsi dei processi di globalizzazione (limitandone in parallelo i costi) e di inserirsi con successo nell’economia dell’Eurozona che si andava costruendo. Ora che la narrativa neoliberista è in crisi e che altre narrative si fanno strada, si dovrebbe cercare di evitare di gettare il bambino con l’acqua sporca (soprattutto in un Paese con forti rigidità strutturali come l’Italia) e integrare alcuni di questi strumenti in un nuovo approccio di politica economica, che io e Michele Salvati abbiamo definito di liberalismo inclusivo. Anche perché, perseguendo una prospettiva completamente diversa da quella di Salvati e Dilmore, la narrativa del Nuovo Nazionalismo Economico, mutatis mutandis, sta facendo qualcosa di simile, anche se la mia personale impressione è che sia più intenta a gettare il bambino che l’acqua sporca (si pensi all’idea della flat tax, coniugata con un rinnovato dirigismo statale, la difesa dell’italianità delle imprese “a prescindere” e la riluttanza ad applicare le regole della concorrenza).