Il 22 novembre scorso i litorali italiani sono stati inondati dalla marea più alta mai registrata da quando esistono i sistemi di misurazione, ulteriormente aggravata dal vento proveniente da Sud Ovest che ha gonfiato le onde e alimentato violente mareggiate sia sul versante adriatico sia su quello tirrenico. La combinazione tra l’alta marea astronomica e barica ha provocato elevati danni a spiagge, strade ed edifici sulle coste di Lazio, Campania, Veneto, Emilia-Romagna, Marche, Abruzzo, Puglia e Sardegna, soprattutto nelle località che si trovavano già in una situazione critica di erosione costiera (come per esempio a Ostia e ad Alba Adriatica) e con ingressioni molto intense nei lidi di Ravenna e in quelli di Comacchio, dove l’Adriatico ha toccato il record storico di +138 cm a Porto Corsini e +147 cm a Porto Garibaldi, allagando i centri abitati con immagini che eravamo abituati ad associare alle piogge intense, non al mare.

Tuttavia l'informazione è rimasta per lo più relegata alla cronaca locale, raccontando come disastri di natura eccezionale e circoscritti a singole città quelli che in realtà sono stati i tanti pezzi di un unico fenomeno in corso da tempo e che riguarda tutte le coste italiane, ossia l’innalzamento del livello del mare, provocato dallo scioglimento dei ghiacciai a sua volta dovuto al riscaldamento globale di causa antropica. L’unico caso ad avere un rilievo nazionale è stato quello di Venezia, ma trattato comunque in maniera isolata dal resto della penisola, e più con toni trionfalistici che preoccupati: la politica si è infatti affrettata a celebrare il successo e i meriti del Mose, che ha impedito che la città venisse sommersa da un mare che alla bocca di porto del Lido ha toccato i +204 cm di marea, un valore molto superiore ai +187 cm dell’inondazione avvenuta nel 2019 e al precedente record storico dei +194 cm dell’acqua granda nel 1966 (per dare un’idea, senza il Mose l’acqua in piazza San Marco sarebbe arrivata all’altezza dell’ombelico di un uomo di altezza media). Ma sui media nazionali è mancata una ricostruzione globale del fenomeno, che riconducesse i danni avvenuti in tutte le località costiere all’unica, grande causa che li ha provocati.

Le narrazioni giornalistiche tendono a raccontare la singola catastrofe locale in termini di eccezionalità, oppure a riportare previsioni allarmistiche più o meno attendibili, ma che riguardano sempre un futuro lontano. Purtroppo non è così

Riguardo gli eventi connessi alla crisi ambientale in corso come l’innalzamento del livello del mare, le narrazioni giornalistiche tendono a raccontare la singola catastrofe locale con termini che ne denotano l’eccezionalità (“maltempo”, “mareggiata”, “bomba d’acqua”) oppure a riportare previsioni allarmistiche più o meno attendibili, ma che riguardano sempre un futuro lontano (“Nel 2100 Bologna diventerà una città di mare”, “Cagliari e Oristano saranno sommerse”: sono esempi di quei “fattoidi” che il filosofo ecologista Timothy Morton accusa di avere l’effetto di ripararci dallo shock anziché provocarcelo). I fatti di cronaca come quelli del 22 novembre non sono quasi mai oggetto di analisi più ampie e legate alla causa originale: di riscaldamento globale si parla soprattutto in termini generali e distaccati dalla realtà; di conseguenza la percezione del pericolo è tanto diffusa quanto inconsapevole, essendo per lo più orientata a pensare che riguarderà solo qualcun altro. Invece, l’innalzamento del livello del mare è un fenomeno lento e graduale che sta già avvenendo adesso intorno a noi, e a dimostrarlo ci sono l’acqua salata dell’Adriatico che la scorsa estate è penetrata per 30 chilometri dentro al Po, o appunto le mareggiate con cui nelle località costiere si è già iniziato a convivere ogni volta che l’acqua straripa dai portocanali e abbatte le dune artificiali di sabbia erette in inverno proprio per difendersi dall’avanzare delle onde. Il che sta avvenendo con una cadenza sempre più frequente e intensa.

Trattare il fenomeno a livello giornalistico con una prospettiva nazionale aiuterebbe a diffonderne la percezione in quella maggioranza di popolazione che frequenta la costa solo durante l’estate, quando il mare è meno agitato, la sabbia erosa è stata recuperata attraverso i ripascimenti e la spiaggia è calda e pronta ad accogliere i turisti; ma, soprattutto, potrebbe spingere la discussione politica a ragionare su come gestire gli arretramenti dei centri urbani più a rischio e la difesa degli habitat costieri. Si tratta di temi di cui avremmo già dovuto iniziare a ragionare, in quanto l’innalzamento del livello del mare è un fenomeno irreversibile: anche se smettessimo oggi di inquinare del tutto l’atmosfera terrestre (e comunque non pare che siamo pronti a farlo), il riscaldamento globale provocato finora è già sufficiente a far proseguire lo scioglimento dei ghiacciai per i prossimi decenni; perciò occorre cominciare a gestire la convivenza con un problema che riguarda già il 50% dei litorali italiani oggi in erosione, con conseguenze sia per l’importante quantità di popolazione che vive lungo i litorali, sia per la flora e la fauna degli habitat costieri. Per quanto riguarda l’uomo, lungo le coste della nostra penisola si concentra il 30% degli italiani; secondo l’Ispra la densità di edifici nella fascia di 300 metri dalla battigia è doppia rispetto alla media del resto della penisola e, in base ai dati Istat, le località balneari durante l’estate aumentano da due a dieci volte la loro popolazione. Per il resto della natura, invece, a rischiare di scomparire sono preziosi ecosistemi come le dune naturali costiere e le zone umide, provocando ulteriori problemi dal punto di vista ambientale: le prime sono infatti habitat ricchi di biodiversità e barriere naturali contro le mareggiate, mentre le seconde hanno una capacità di assorbire anidride carbonica maggiore del 30% rispetto alle più inflazionate foreste. In entrambi i casi, si tratta di funzioni che la natura ci offre per attenuare le conseguenze delle nostre stesse emissioni inquinanti, e che andrebbero dunque preservate anziché uccise dalla mano umana.

A rischiare di scomparire sono preziosi ecosistemi come le dune naturali costiere e le zone umide, oltre agli insediamenti abitativi: lungo le coste della nostra penisola si concentra infatti il 30% degli italiani

Nonostante l’innalzamento del livello del mare sia un problema da trattare a livello nazionale, finora lo Stato ha demandato alle Regioni e ai Comuni le scelte sulle strategie di difesa dall’erosione costiera, sulla gestione del demanio marittimo e sulla pianificazione urbanistica lungo i litorali, e questo approccio finora ha generato più problemi che soluzioni: per esempio la costruzione delle opere rigide anti-erosione, come le scogliere frangiflutti che puntellano le coste italiane, risolvono la criticità nella spiaggia antistante ma spesso lo provocano in quella della località di fianco, proprio perché manca una visione globale sul tema. Occorre invece iniziare a ragionare a lungo termine e ad ampio raggio su come adattarsi, pianificando strategie sostenibili dal punto di vista ambientale, economico e sociale. Finora, in pieno spirito capitalista, la scelta su cosa difendere è dipesa solo dal valore economico di ciò che si è difeso, e non da quello ecologico: come a Gudong, in Cina, nel 1985 è stato innalzato un muro di 117 chilometri per proteggere dall’erosione costiera il secondo giacimento petrolifero del paese, in Italia abbiamo investito 5 miliardi e mezzo di euro per costruire il Mose al fine di salvare Venezia e spendiamo 211 mila euro per ogni singolo sollevamento della diga tra personale, vigilanza alle bocche di porto ed energia elettrica. Ma dato che non potremo costruire un grande Mose a proteggere l’intera penisola italiana, toccherà purtroppo decidere quali aree sacrificare alle inondazioni, quali spostare con un arretramento gestito e quali infine preservare con opere rigide di difesa, in quella che il geologo Enzo Pranzini invita a considerare come “la via strategica per salvare le coste”, e che deve considerare anche la natura e non solo gli interessi umani. Si tratta di scelte difficili, ma che un governo responsabile dovrebbe assumere sin da ora, a titolo preventivo rispetto a uno scenario dato per scontato dalla scienza, anziché a posteriori quando arriveranno i primi morti come a Ischia.

Tuttavia il problema, come per tutto ciò che riguarda i temi ambientali, è legato al consenso: l’orizzonte degli ottant’anni, quando “il mare arriverà a Bologna”, sono pochissimi in relazione alle ere geologiche ma sono troppi per chi punta solo a riottenere il voto alla successiva tornata elettorale. Un approccio in grado di mitigare i danni legati al riscaldamento globale non richiede solo i compitini facili e fagocitabili dal marketing come l’abbandono della plastica, bensì implica scelte impopolari e costi enormi che andrebbero a incidere sul nostro stile di vita, di cui perciò nessuna figura politica sembra disposta a farsi carico, poiché ne penalizzerebbero la rieleggibilità. Ma nemmeno possiamo permetterci di assistere inermi al disastro in corso, e per farlo capire occorre innanzitutto iniziare a costruire narrazioni diverse, meno consolatorie e permeate di eccezionalità, su ciò che sta accadendo.