Ha scatenato la risposta sdegnata del prefetto Mario Morcone, oltre che del sindacato di polizia Coisp, la notizia che l’ultimo rapporto di Amnesty International dedicato all’attuazione del cosiddetto «approccio hotspot» in Italia accusasse le nostre forze di polizia di trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei migranti e richiedenti asilo che sbarcano sulle nostre coste. Il rapporto incriminato è lungo oltre cinquanta pagine e raccoglie più di 170 interviste che, secondo quanto riporta la nota Ong, denunciano in maniera coerente e concordante arresti arbitrari, intimidazioni e uso eccessivo della forza fisica per costringere uomini, donne e anche bambini appena arrivati a farsi prendere le impronte digitali. Se è forse comprensibile la reazione di chi in risposta ad accuse così gravi e dirette attacca la metodologa di lavoro di Amnesty e l’attendibilità dei suoi testimoni, occorre ricordare che anni addietro anche un altro rapporto pubblicato da Human Rights Watch fece molto scalpore, prima che le accuse in esso contenute portassero alla condanna del governo italiano di fronte alla Corte europea dei diritti umani.

È evidente che non è questa la sede per determinare la veridicità delle accuse mosse alle forze di polizia italiane. Piuttosto, il rapporto di Amnesty è interessante dal punto di vista per così dire «sociologico». Esso è in gran parte un atto di accusa contro l’Unione europea, colpevole di aver elaborato un modello di gestione della crisi migratoria che strutturalmente alimenta il rischio che migranti e rifugiati subiscano trattamenti inumani e degradanti. Di fatto tale approccio si basa sullo slogan «no registration, no rights», lanciato dal presidente Jean-Claude Junker e più volte ripreso anche in documenti della Commissione. Uno slogan che esprime un’idea alquanto pericolosa che di fatto stravolge i principi contenuti nella Convenzione di Ginevra, dove il diritto di chiedere asilo è affermato in maniera assoluta e incondizionata. Se è evidente che un simile principio non possa avere alcun valore giuridico, esso è tuttavia indice della filosofia di fondo che ispira l’«approccio hotspot». Una filosofia che ha portato la Commissione a richiedere insistentemente a Grecia e Italia di prevedere per legge la possibilità di trattenere per lunghi periodi di tempo all’interno dei centri cosiddetti «hotspot» aperti in prossimità dei punti di sbarco coloro che si rifiutano di rilasciare le loro impronte digitali, e consentire alle forze di polizia il ricorso all’uso «proporzionato» della forza per piegare la resistenza dei più recalcitranti.

L’Italia ha via via costruito la sua rete di «hotspot», riconvertendo le vecchie strutture di primo soccorso come quella di Lampedusa, o aprendo strutture ex novo come a Taranto. Fortunatamente, i termini massimi di trattenimento all’interno dei centri per migranti, nelle loro varie forme, sono ancora piuttosto stringenti, cosa per cui la Commissione non smette di criticare il nostro Paese.

Quanto invece alla possibilità dell’uso «proporzionato» della forza, la polizia italiana ha fino a questo momento aggirato il problema utilizzando un metodo che potremmo definire del divide et impera. Nel corso di un’audizione di fronte alla Commissione parlamentare sui centri per immigrati, l’allora capo della polizia italiana Alessandro Pansa, pur rivendicando esplicitamente la legittimità dell’uso della forza, ha ammesso tutti i rischi di una simile strategia, suggerendo come la risposta delle autorità italiane sia quella di dividere in piccoli gruppi i migranti che attuano forme di resistenza più pervicaci, dislocandoli presso caserme o strutture della polizia sparse sul territorio italiano. Vale la pena di citare per esteso le parole del prefetto Pansa:

«Oggi le persone che sbarcano generalmente si fanno fotosegnalare e i gruppi che rifiutano il fotosegnalamento […] riusciamo a fotosegnalarli perché li dividiamo in piccoli gruppi o singolarmente e li distribuiamo sul territorio. Come vi è stato detto, a Lampedusa questa resistenza accadeva una volta su tre, ma adesso è molto meno perché li dividiamo in gruppi da dieci o da cinque e li distribuiamo. Il fatto è che cento persone non si fanno fotosegnalare, ma, presi dieci per volta in questura, si fanno fotosegnalare perché non hanno più la forza del gruppo e hanno la possibilità anche di capire l’inutilità del loro atteggiamento, quindi alla fine vengono fotosegnalati».

Queste parole, oltre a indicare una prassi dalla dubbia legalità (in base a quale norma di legge, ci domandiamo, gli stranieri sono dislocati e trattenuti in stato di detenzione presso i locali delle questure?), esemplifica perfettamente la pressione che la polizia italiana è stata indotta ad esercitare su migranti e richiedenti asilo che oppongono resistenza al rilascio delle impronte. Non è difficile dunque immaginare il clima che si respira dentro i cosiddetti «centri hotspot»: luoghi remoti e pressoché inaccessibili allo sguardo della società civile in cui, alla vigile presenza degli agenti europei di Frontex, la polizia italiana conduce la sua battaglia quotidiana per ottenere le impronte digitali dai migranti appena giunti sulle nostre coste. Non è necessario essere un esperto di monitoraggio di luoghi di detenzione e prevenzione della tortura per capire che l’«approccio hotspot» crea le «condizioni di possibilità» perché ciò che denuncia Amnesty possa verificarsi, indipendentemente dal fatto che quello che è scritto in quel rapporto risponda al vero o meno.

Eppure, se ci si fosse presi la briga di giungere fino in fondo con la lettura del rapporto prima di gridare allo scandalo per le accuse rivolte alla polizia italiana, ci si sarebbe imbattuti in alcuni utili suggerimenti che Amnesty rivolge alle nostre autorità. A tali suggerimenti mi permetto di aggiungere anche l’idea che ai Garanti regionali per la tutela dei diritti delle persone private della libertà personale sia concesso di svolgere un monitoraggio indipendente e sistematico di tutte le procedure che si svolgono all’interno dei centri cosiddetti «hotspot».

Se il governo italiano avesse orecchie per ascoltare i buoni consigli di Amnesty compiacerebbe forse meno la Commissione europea, ma di sicuro metterebbe le sue forze di polizia al riparo dalle polemiche.