Che cosa lega le ondate di calore e gli incendi forestali in Italia, la desertificazione che avanza dal Sahel, la penuria di pesce negli oceani, le piroghe cariche di migranti dirette verso le Canarie e i naufragi nel Mediterraneo? Proviamo a guardare l’intensificarsi di questi fenomeni partendo da uno dei Paesi africani più ricchi di risorse e potenzialità, eppure più a rischio di siccità e di fuga dei giovani, il Senegal, attraverso quattro voci che mettono in luce come cambiamento climatico, migrazioni, degrado ambientale e diseguaglianze sociali siano legati tra loro in maniera inscindibile.

Tra gli anni Settanta e Ottanta, tutto il Sahel è stato colpito da una terribile siccità che ha spinto la popolazione rurale che viveva all'interno del Senegal a spostarsi verso le aree costiere, causando, tuttavia, un aumento della pressione demografica e un eccessivo sfruttamento dell'area fertile che abbraccia tutta la costa senegalese, dal Capo Verde fino a Saint Louis – i Niayes: una terra precedentemente fertile si è rapidamente trasformata in un territorio afflitto da siccità e fame.

Nei Niayes a Nord di Dakar si trova anche il Lago Rosa, che negli anni Settanta e Ottanta rappresentava un importante bacino di attrazione per le migrazioni interne, richiamando lavoratori che aspiravano a entrare nell’industria del sale o nel settore turistico, essendo il lago un elemento di interesse naturalistico, ma anche, a partire dal 1979, internazionalmente rinomato per l’arrivo della famosa corsa Parigi-Dakar (che tuttavia, in seguito all’aggravarsi dell’instabilità geopolitica nell’area mauritana, a partire dal 2007 ha cambiato rotta, facendo collassare l’economia turistica del lago e aggravando enormemente le condizioni di vita di tutta la popolazione locale).

Madame Mbaye, una bella signora vestita di un giallo solare, ricorda di avere cominciato a lavorare qui all’inizio degli anni Ottanta, e di avervi incontrato suo marito. Entrambe le loro famiglie erano emigrate nella periferia di Dakar; dopo il matrimonio, nel 1986, entrambi hanno iniziato a lavorare nell’industria del sale, lui raccogliendolo e lei trasportandolo. «Ogni giorno porto 50-70 ceste di sale sulla testa, avanti e indietro per centinaia di metri, e ognuna pesa circa 25 kg, ma può arrivare anche a 40 kg, con un guadagno di 25 franchi CFA a cesta» (2.000 franchi CFA corrispondono a circa 3 euro al giorno), dice lei. Il marito intanto trascorre ore immerso fino al petto nell’acqua rosa e calda del lago per estrarre il sale, contribuendo al reddito familiare giornaliero con altri 2.000 franchi CFA.

La migrazione interna ha anche creato, a partire dagli anni Ottanta, le condizioni per rendere più accessibile, soprattutto ai giovani, la decisione di cercare fortuna lontano, guardando all’Europa. Habib Fall è uno di questi. In piedi sulla spiaggia di Guet Ndar, a Saint Louis, con giacca a vento, pantaloni e scarpe inzuppati d'acqua, guarda il mare attraversato dalle piroghe che scaricano casse di pesce, e racconta che lui in Europa ci ha vissuto diversi anni, arrivando a Marsiglia con un visto turistico nel 1986. Prima dell’accordo di Schengen non era infatti difficile per i senegalesi entrare in Europa: molti riuscivano a ottenere il visto per un lavoro stagionale, altri arrivavano con un visto turistico e cercavano poi un lavoro con cui ottenere un visto regolare. Habib lavora dapprima tra Genova e Napoli come venditore ambulante, poi si sposta tra Foggia e la Sicilia, alternando la raccolta dei pomodori a quella delle arance. Nel suo miscuglio di italiano e spagnolo racconta sorridendo di esser stato un Modou modou, come in wolof sono chiamati i senegalesi emigrati in Occidente, un termine celebrativo, che nell’immaginario locale corrisponde a una sorta di eroe contemporaneo, una figura sociale di successo, che incarna la mobilità sociale di chi fornisce aiuto finanziario alle famiglie attraverso le rimesse, e ostenta ricchezza, vestendosi e comportandosi all’occidentale.

Ma questo succedeva ieri, nei mitici anni Ottanta, quando Habib poteva viaggiare tra Genova e Madrid, mentre oggi è costretto ad alzarsi all’alba per aspettare le piroghe in arrivo col pesce, comprarne 4 o 5 da rivendere ai ristoratori o al mercato con un sovrapprezzo che gli permette di guadagnare circa 5 euro, con cui sfamare la moglie e i 3 figli. Habib continua a sentire il desiderio di tornare in Europa, ma sa che oggi potrebbe farlo solo tendando il gaalu looco, la traversata in piroga verso le isole Canarie, visto che la Fortezza Europa ha rafforzato i controlli frontalieri nello stretto di Gibilterra. Habib ha tentato l’impresa mortale una volta, nel 2006: «Ho pagato 300.000 CFA (circa 400 euro), ma un incendio al motore ha fatto rovesciare la barca, molti sono annegati e io mi sono risvegliato sulle coste della Mauritania grazie a due pescatori che mi hanno salvato». Da quel momento, «Barça ou Barsakh» (l’Europa o la morte) – lo slogan coniato dai migranti clandestini che rischiano la vita per fuggire dalla miseria – non è più il suo credo, e tuttavia vorrebbe che il figlio seguisse il suo esempio: «Gli amici che hanno i figli in Europa si sono sistemati, perché con i soldi che inviano ci vive tutta la famiglia. Qui purtroppo non ci sono opportunità. E come dice un proverbio wolof: una busta vuota non rimane a terra».

Negli anni Ottanta di buste vuote nel Paese ce n’erano molto poche tra i pescatori, grazie alle grandi quantità di pesce presenti nell’oceano: il Senegal aveva i mari più ricchi dell’intera Africa occidentale, e la pesca tradizionale ne garantiva il rispetto. I pescatori uscivano con le loro piroghe la mattina e tornavano nel primo pomeriggio. Andavano a pescare a poche miglia dalla riva, non serviva rischiare e navigare in alto mare per recuperare il fabbisogno familiare e un surplus da vendere nei mercati locali. Feugudjaay di Gendal (Dakar) racconta questo passato mitico con aria sognante: «Prima facevo 10 o 20.000 CFA al giorno (30/40 euro), ma ora sono rimasto squattrinato. Ora il mare è completamente impoverito delle sue risorse ittiche. E i pescatori devono spingersi a chilometri e chilometri di distanza dalla costa per pescare. Prima non era così».

La pesca rimane la prima fonte di occupazione del Paese: secondo Usaid, il settore offre opportunità di lavoro a un senegalese su sei. Non solo alle decine di migliaia di pescatori locali con le loro piroghe, ma anche alle donne che si occupano del processo di trasformazione e vendono nei mercati cittadini, e in generale a tutti coloro che sono coinvolti nell'indotto.

Le piroghe utilizzate per la pesca sono le stesse che vengono usate per raggiungere le Canarie. "I pescatori seguono il pesce. Se il pesce va in Europa anche i pescatori senegalesi vanno in Europa"

Con lo sguardo fiero ma triste, Feugudjaay denuncia che «i pescatori hanno il morale a terra perché il mare è ormai svuotato dai pesci. Siamo assediati da imbarcazioni straniere con una capacità di pesca enorme […] la loro capacità di saccheggiare le nostre risorse contribuisce all'impoverimento dei nostri pescatori. Questo spiega perché gli uomini hanno preso le barche per migrare in Europa». Le piroghe utilizzate sono le stesse, ma per scopi diversi: «I pescatori seguono il pesce. Se il pesce va in Europa anche i pescatori senegalesi vanno in Europa». Feugudjaay stesso ha un figlio che ha provato due volte ad arrivare alle isole Canarie con le piroghe, senza successo.

Dal 1979, l’Ue ha beneficiato di un accesso privilegiato ai ricchi mari del Senegal, ri-confermato a novembre 2020, con pochissime restrizioni imposte dal governo senegalese. Ma per i pescatori il bilancio di questa «cooperazione» è nettamente negativo, dal punto di vista sia ambientale sia sociale: gli stock ittici si stanno velocemente esaurendo e la pesca artigianale senegalese fa fatica a competere con le grandi imbarcazioni straniere. La sicurezza alimentare di moltissime famiglie senegalesi è messa in pericolo dall’indebolimento del mercato locale. Inoltre, la pesca incontrollata delle grandi imbarcazioni straniere e il conseguente sovrasfruttamento dei mari (ocean grabbing) minacciano lo stile di vita di molte persone e famiglie senegalesi ma anche la loro stessa identità culturale.

Ma la produttività delle battute di pesca è diminuita anche a causa di un danneggiamento dell’ecosistema marino dovuto ai cambiamenti climatici che hanno portato a un cambio di correnti marine, a una migrazione diversa di molte specie di pesci e a un’erosione costiera pressante, unita a un inquinamento del mare e delle spiagge. Spiagge sempre più ricoperte di sacchetti di plastica e rifiuti, tanto da portare Feugudjaay a riflettere, con tristezza: “Un tempo la sabbia era viva, la spiaggia si lamentava quando ci camminavamo sopra. Ora non è più così. La sabbia è morta, sepolta da una montagna di spazzatura”.

Nei quartieri costieri di Dakar e Saint Louis, lo squallore della vita metropolitana è reso visibile dalla quantità di spazzatura presente. Nel passato, il concetto stesso di rifiuto non esisteva, poiché tutto era riutilizzabile e trasformato; era un mondo basato sull’armonia e la simbiosi tra l’essere umano e la terra, di cui la modalità predatoria ed estrattivista del capitalismo contemporaneo ha decretato la fine, esasperando anzi la situazione con l’introduzione di nuovi materiali non biodegradabili.

Aliou ha lasciato le zone rurali dell'interno per Dakar; nella discarica guadagna più che in altri mestieri e sente di svolgere un lavoro utile, che – dice – andrebbe maggiormente riconosciuto e tutelato

In Senegal questa trasformazione ha coinciso con processi di urbanizzazione rapidi e insostenibili, privi di una strategia adeguata di gestione dei rifiuti. Solo una parte di questi arriva infatti nella discarica di Mbeubeuss – una delle più grandi dell’Africa –mentre il resto finisce abbandonato ai bordi delle strade o sulle spiagge. Creata nel 1968 a circa trenta chilometri da Dakar, la discarica è cresciuta in modo esponenziale, divenendo una città di immondizia, in cui più di 2.000 persone lavorano come recuperatori di rifiuti, rimettendo in circolazione gli scarti. Persone come Aliou, che ha lasciato le zone rurali per andare a cercare lavoro a Dakar ed è approdato nella discarica, dove guadagna più che in altri mestieri e sente di svolgere un lavoro utile: «È un lavoro essenziale che dovrebbe essere riconosciuto dalla società e reso più sicuro e tutelato», cosa che cerca di fare attraverso l’associazione informale Bokk Djom (Solidarietà di gruppo e coraggio).

Se per Aliou lo scarto è rappresentativo di una società che produce e consuma più di quanto non le sia necessario, esso diventa, nelle parole dello scrittore Giudo Viale, «lo specchio dietro cui la civiltà dei consumi ama riflettersi», senza mostrarne le brutture agli occhi degli europei, che pure lo alimentano, continuando a inviare ingenti quantità di materie plastiche non riciclabili nei Paesi del Sud del mondo, non dotati di impianti adeguati per il trattamento e con norme ambientali non rigorose.

La domanda è allora una: è possibile immaginare il ritorno a un mondo nel quale la riparazione e la cura siano nuovamente valori condivisi? Prendendo in prestito le parole del filosofo africano contemporaneo Achille Mbembe, lo si potrà fare quando inizieremo a riconoscere il diritto universale di respirare, inteso non solo come respiro biologico ma soprattutto come diritto a un ambiente sano per tutti. Per farlo è necessario dislocare la nostra prospettiva, eurocentrica e privilegiata, e immaginare un diverso rapporto con la Terra, basato sull’idea di cura per l’umanità e per il nostro pianeta, non solo per noi stessi ma anche per le generazioni che verranno dopo di noi.

 

Le autrici e l’autore sono parte del team di ricerca dell’Università di Bologna all’interno del progetto End Climate Change, Start Climate of Change. A Pan-European Campaign to build a better future for climate induced migrants, the human face of climate change. (2020-2023), cofinanziato dalla Commissione europea nell’ambito del programma DEAR (Development Education and Awareness Raising).