Dice Angelo Scola, arcivescovo di Milano, che lo stato laico minaccia la libertà religiosa. Non lo afferma in modo così crudo e netto, ma all’interno di un complesso Discorso alla città pronunciato il 6 dicembre scorso nella basilica milanese di Sant’Ambrogio. Diciassette secoli fa, sostiene, l’editto di Costantino ha segnato l’initium libertatis dell’uomo moderno, e in particolare l’atto di nascita della libertà religiosa.

Già qui è lecito dissentire. A quel lontano febbraio del 313, e al riconoscimento «a chicchessia» della «libera volontà di aderire vuoi alla fede dei cristiani, vuoi a quella religione che ognuno reputi la più adatta a se stesso», hanno velocemente tenuto dietro provvedimenti sempre più persecutori nei confronti di chi aderisse alla religione cosiddetta pagana. Nel 341-342 furono banditi i sacrifici. Nel 346 furono chiusi tutti i templi, e fu comminata la pena di morte a chi avesse compiuto sacrifici. Nel 353-358 la pena di morte fu anche prevista per chi adorasse le statue degli dèi. Nel 381-385 si tornarono a proibire i sacrifici, e ci si aggiunse anche la divinazione. E soprattutto, con l’editto di Tessalonica del 380, gli imperatori Teodosio I, Graziano e Valentiniano II misero al bando tutte le professioni di fede che contrastassero con il credo niceno. «Ordiniamo che il nome di Cristiani Cattolici avranno coloro i quali non violino le affermazioni di questa legge», proclamano. E poi: «Gli altri li consideriamo persone senza intelletto e ordiniamo di condannarli alla pena dell’infamia come eretici […] costoro devono essere condannati dalla vendetta divina prima, e poi dalle nostre pene, alle quali siamo stati autorizzati dal Giudice Celeste». Come initium libertatis non è un granché. Lo riconosce anche Scola, che parla di un inizio mancato, cui seguì «una storia lunga e travagliata». Forse dovrebbe prender coraggio, l’arcivescovo, e riconoscere che la libertà – quella religiosa, e non solo – all’Occidente è stata data non dalla chiesa, ma dai suoi avversari, o se si preferisce dai movimenti politici, culturali e politici detti comunemente laici.

Ma è proprio con la laicità – e chissà, magari anche con i singoli laici – che il cardinale se la prende, nel suo Discorso alla città. Per brevità, basterà qui ricordare il passo in cui ricorda con una certa nostalgia il tempo non troppo lontano – «qualche decennio fa» –, in cui il potere politico «faceva riferimento sostanziale ed esplicito a strutture antropologiche generalmente riconosciute […] come dimensioni costitutive dell’esperienza religiosa: la nascita, il matrimonio, la generazione, l’educazione, la morte» Questa sì era una laicità rispettosa della libertà, sembra dire, non quella “secolarista” che si è poi andata affermando. La quale laicità sbagliata, spiega, consiste in una «in-differenza, definita come “neutralità”, delle istituzioni statuali rispetto al fenomeno religioso», che ha portato «a procedure decisionali che tendono ad autogiustificarsi in maniera incondizionata».

La formula è oscura, ma può essere illuminata così: lo stato laico “secolarista” pretende di legiferare in relazione ai diritti civili – procreazione, unioni, scuola, libertà di cura e di interruzione della cura – prescindendo dalle singole fedi e religioni, e solo in vista della completa autonomia decisionale del singolo. Insomma, la laicità che sembra piacere a Scola è quella in cui il parroco conta più del deputato. Questo a 1699 anni dall’initium libertatis di Costantino, e a 1632 dal finis libertatis di Teodosio & C.

P.S. «Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta in veste di tragedia, la seconda volta in guisa di farsa». Così suonano le parole, famosissime, che aprono Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte. Di fronte al colpo di stato di quello che poi si proclamò Napoleone III, Karl Marx non poté fare a meno di confrontare la statura (politica) del pronipote con quella del grande prozio.

Ora qui a noi sarebbe forse toccato di prender posizione di fronte alla statura (politica) di Napoleone IV, ossia d’un vecchio miliardario che, a distanza d’un ventennio, ripete la sua stessa “discesa in campo”. E magari avremmo potuto (indegnamente) rispolverare l’incipit marxiano, e insistere sulla tragedia che diventa farsa.

Ma avremmo sbagliato. Intanto, la tragedia del berlusconismo è sempre stata anche farsa. Anzi, è proprio nel suo carattere di farsa che fin dall’inizio è consistita e ancora oggi consiste la sua essenza di tragedia politica, culturale, antropologica. E poi, considerando l’uomo e i tempi, è inevitabile concluderne che il vecchio Marx era un ottimista.

Capita infatti che, a furia di ripresentarsi, certi piccoli fatti e certi piccoli personaggi della storia nazionale non si limitino alla tragedia farsesca, o alla farsa tragica, ma sconfinino con decisione oltre qualunque genere letterario, e si abbattano sul nostro viver quotidiano con la grevità d’una noia profonda. Per questo motivo non ne abbiamo scritto: per non annoiarci.