Siamo verso la fine della prima, lunga, variegata, a tratti estenuante, serata del festival di Sanremo, in un martedì sera che è già diventato mercoledì da un po’. È passata l’una di notte. Tutti i quattordici cantanti in gara si sono esibiti. Ci sono già stati (come da scaletta) il monologo intenso e il medley del grande gruppo che attraversa i decenni, e pure (in deroga parziale al copione) l’incidente con il giovane cantante già vincitore dell’edizione precedente. Ormai è quasi il momento di mollare il colpo, assonnati e intorpiditi, nell’attesa dei risultati parziali, chiedendoci pure un po’ il perché di questa lunga maratona, del gioco al piccolo critico, degli scambi di messaggi che pian piano si diradano.

Ma ecco, improvviso, un momento che fa da illuminazione, e da risposta – per quanto parziale. All’una e dieci di una serata qualsiasi, il primo canale del servizio pubblico propone Gianni Morandi che accenna l’inizio de Il mio canto libero di Lucio Battisti; lui si posiziona al centro del palco, continuando a cantare, circondato dai coristi che per tutta la sera hanno accompagnato i cantanti; intanto Amadeus si trova in platea, tra il pubblico di piccole celebrità in attesa di inquadratura e liguri inferociti per l’assalto ai fiori, e Chiara Ferragni si avvicina all’orchestra; Morandi trascina, ma cantano anche il presentatore navigato al suo quarto Sanremo e la giovane imprenditrice digitale, canta chi ha tenuto in piedi lo spettacolo, canta il pubblico del teatro Ariston, in rappresentanza di tutto quello ancora davanti al piccolo schermo.

E allora, anche solo per pochi minuti, si rivelano tutta la potenza di questo evento annuale, la sua forza, il suo valore (in senso economico, in senso culturale): qualche attimo di karaoke, nella forma dell’omaggio a uno degli artisti più popolari della musica leggera italiana, all’interno di una manifestazione musicale e televisiva che in fondo è anch’essa un lungo karaoke. Imprecisa, sbilenca, piena di svisi e di sporcature, con qualche rara sorpresa e con molti errori che fanno parte del gioco, proprio come quando si canta senza rete. E poi trasversale, collettiva, capace di unire tutti o almeno molti sulle stesse note, sulle stesse parole mandate a memoria e pronunciate in maniera incerta, indipendentemente dall’età, dai percorsi, dai gusti di ciascuno.

I tre poli disposti all’Ariston si sono fatti simbolo di chi era ragazzino negli anni del boom, di chi ha passato gli anni Ottanta in discoteca e di chi è cresciuto in un’Europa unita e un mondo globalizzato

I tre poli disposti all’Ariston si sono fatti simbolo di chi era ragazzino negli anni del boom (e della prima vera cultura pop italiana tra musica e cinema), di chi ha passato gli anni Ottanta in discoteca (e ha partecipato allo sviluppo della radio e della tv commerciale), e di chi è cresciuto in un’Europa unita e un mondo globalizzato (con il web, i social, gli smartphone a disposizione). Insieme. Morandi, Amadeus e Ferragni, e con loro tutti noi, trovano su quella canzone – piccola parte per il tutto del festival – uno spazio collettivo, un terreno condiviso, un immaginario che è quello della nazione in un senso pieno, senza le furbizie politiche: una comunità che si ritrova e si rispecchia nei media.

Lo aveva già messo in luce, qualche ora prima, all’inizio della serata, la decisione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella di essere presente per un po’ in quel teatro, nella connessione ideale che per la prima volta esplicitamente ha posizionato Sanremo dalle parti del 7 dicembre alla Scala o delle grandi competizioni sportive: tasselli di una koiné sociale, culturale e politica insieme, frammenti che nel bene e nel male danno forma a un’identità imperfetta ma vivace – con alcuni punti fondanti ricordati subito nell’apertura affidata al mestiere di Roberto Benigni, ormai oratore civile (e senza il “gobbo”).

E lo hanno messo in luce anche, la mattina dopo, i dati di ascolto, che non solo hanno sancito una platea di spettatori larga e solida (quasi 26 milioni di spettatori hanno visto almeno un minuto della prima serata), ma hanno anche mostrato quanto il festival porti davanti alla tv, insieme, e tenga lì, insieme, sia molti adolescenti sia il pubblico maturo, il Nord e il Sud, le grandi città e i piccoli centri, i laureati e chi ha studiato di meno. Attirati dall’uno o dall’altro cantante, dagli ospiti, dai conduttori, dallo spettacolo o dalle polemiche, dalla voglia di immergersi o da quella di distinguersi. All’una del mattino della prima maratona, quando Morandi e l’Ariston intonavano Il mio canto libero, c’erano ancora cinque milioni di persone (con il picco di share e quasi il 70% dei televisori ancora accesi sintonizzati sul festival).

Il karaoke nazionale del festival, imperfetto e collettivo, richiama tutti e tutto quanto comprende. Qualche anno fa la frase di lancio era stata “Tutti cantano Sanremo”, e le prime due serate di questa settantatreesima edizione sembrano volerlo ricordare in continuazione, con la lunga reunion dei Pooh e l’amichevole gara tra i repertori di Morandi, Massimo Ranieri e Al Bano, con l’inno di Mameli, C’era un ragazzo o Grazie dei fiori in un ideale canzoniere pop italiano che ogni generazione più o meno conosce. Forse a compensare i tantissimi brani in gara che a un primo ascolto (ma la ripetizione aiuterà) paiono più deboli e meno sorprendenti di altre edizioni; certo a iniettare di pilastri sicuri una sequenza di sketch televisivi con il pilota automatico, di accorate promozioni di fiction Rai, di abbondanti innesti pubblicitari pienamente inseriti nel flusso dello show. Come sempre, anche stavolta Sanremo è il frullatore che mescola tante cose assieme, che prova e riesce a offrire qualcosa a ciascuno, che accosta frammenti altrimenti dispersi, li attrae, li giustappone, li allinea su un denominatore comune.

Anche stavolta Sanremo è il frullatore che mescola tante cose assieme, che prova e riesce a offrire qualcosa a ciascuno, che accosta frammenti altrimenti dispersi, li attrae, li allinea su un denominatore comune

Da Lazza ad Anna Oxa, da Colapesce Dimartino a Marco Mengoni, da Tananai a Paola e Chiara o ai Cugini di Campagna, dai riferimenti anni Ottanta e Novanta ai talent e alle challenge di TikTok: di tutto e di più, in uno stesso spettacolo, abbagli e sbadigli compresi. Anche chi si illude di reagire, chi spende tempo ed energie a proclamare il suo boicottaggio, chi protesta e si indigna, chi scuote la testa in tale contesto è in trappola, svolge la sua prevedibile parte in commedia, partecipa a questo slabbrato rituale e in fondo lo rafforza pure. Ogni polemica, ogni esternazione, ogni sarcasmo è parte del gioco, nella consapevole costruzione dell’attesa e poi nell’esorcismo dell’evento-karaoke.

Vale per il deprimente balletto attorno al (possibile, derubricato) messaggio di Zelensky e per il commovente momento dedicato alle proteste in Iran, per la sfacciataggine dei monologhi dove il come sovrasta il cosa, o per quei piccoli indizi che ci svelano all’improvviso profondi cambiamenti di sensibilità – con l’abito nude look di Ferragni che passa quasi inavvertito se confrontato con le reazioni alla farfalla tatuata di Belen, con gli interventi politici e le interpellanze parlamentari sui testi delle canzoni travolti da giusta indifferenza, con le rime e le foto strappate di Fedez che sembrano più automatismi di protesta che un compiuto pensiero politico. Tutto fa spettacolo, ma la cosa importante, al di là di ogni dettaglio, è l’insieme che si fa rito e canto di tutti.

Un baraccone, certo, ma il nostro baraccone. Subito prima che cominciasse tutto, uno stimato storico dell’Italia contemporanea, nato però a Londra, ha twittato in inglese che “è giunto il periodo dell’anno in cui gli italiani parlano solo di Sanremo per cinque giorni”. Ecco, niente è più efficace dello sguardo da fuori per mettere in luce quello che qui dentro forse diamo per scontato, per tracciare le linee di confine della nostra comunità immaginata, per far emergere quei linguaggi e quei rituali che ci uniscono. Con le emozioni contrastanti di chi, estraneo, per una settimana ci vede tutti più o meno seriamente impegnati in un gigantesco, debordante, goffo, faticoso karaoke, bello soprattutto perché nostro.