È impresa certamente impossibile provare a condensare in poche righe la biografia intellettuale di Salvatore Veca, scomparso a 77 anni nella notte del 7 ottobre 2021. Salvatore Veca è stato infatti non solo un filosofo raffinato e un professore amatissimo, ma anche un intellettuale di assoluto spessore e un protagonista di primo piano della vita culturale del nostro Paese.

Da filosofo politico, ha saputo coraggiosamente confrontarsi con una tradizione – quella anglofona – che non era affatto dominante in Italia negli anni Settanta e che tuttavia gli parve, e a posteriori possiamo dire con ragione, assai promettente per le prospettive di ricerca che offriva: Cittadinanza, La società giusta, Etica e politica sono libri degli anni Ottanta che segnano un punto di non ritorno per la filosofia politica italiana, anche se fu il precedente Saggio sul programma scientifico di Marx a fare molto più rumore, per le implicazioni critiche che aveva per il marxismo, di cui era imbevuta certa filosofia e certa politica di allora.

Ma la sua sapienza filosofica non può essere rinchiusa nel recinto disciplinare della filosofia politica; del resto, Salvatore Veca arrivava dalla filosofia teoretica e dalla scuola di Enzo Paci, e di questo imprinting troviamo tracce, oltre che nella sua prima monografia, Sulla modalità in Kant, nell’opera della maturità di fine secolo (fin de siècle, avrebbe detto lui!), Dell’incertezza. Né possiamo dimenticare l’influenza che ebbe su di lui un autore che filosofo politico è stato soltanto occasionalmente, Bernard Williams («il più grande saggista del XX secolo», così amava definirlo), del quale condivideva l’idea che la filosofia fosse, nella sua essenza, una disciplina umanistica, benché ovviamente non dovesse (né potesse) essere ostile alla scienza.

La profondità di pensiero di Salvatore Veca è però sempre andata di pari passo con un’attività di insegnamento che, in termini assai poco accademici, potrei definire di grande successo: a Cosenza, a Bologna, a Milano, a Firenze e infine a Pavia, dove si è definitivamente trasferito nel 1990, cambiando soltanto nel corso del tempo l’affiliazione, passando nel 2006 dall’Università allo IUSS.

La potenza e la ricchezza delle sue lezioni erano impressionanti, e non stupisce che abbiano avuto l’effetto concreto di produrre una nutrita covata di allieve e allievi

La potenza e la ricchezza delle sue lezioni erano impressionanti, e non stupisce che abbiano avuto l’effetto concreto di produrre una nutrita covata di allieve e allievi; l’aria nuova che entrava con le sue lezioni nelle riflessioni sulle istituzioni politiche era troppo attraente per potervi resistere. Anche se lui è sempre stato refrattario a considerarsi il maestro, sono molte le persone che oggi insegnano nelle università italiane e straniere che si sono formate ai suoi corsi e sui suoi testi, o sui testi da lui consigliati, e più avanti, da dottorandi e oltre, sotto la sua guida, leggera ma non per questo meno efficace. Come ha detto una delle sue allieve, «ci sarebbero molti meno filosofi politici italiani nel mondo, se non ci fosse stato lui».

Ma il ruolo che ha avuto Salvatore Veca nella filosofia italiana non si esaurisce in ciò che ha fatto nelle università dove ha lavorato, come studioso e docente, e nemmeno negli incarichi istituzionali che ha ricoperto negli anni pavesi (preside a Scienze politiche a Pavia, sempre a Pavia pro rettore alla didattica, pro rettore vicario allo IUSS); il suo contributo è stato decisivo per aprire la filosofia italiana ai venti anglosassoni in un senso più ampio, in forma di traduzione di testi di autori che, se oggi sono noti al grande pubblico italiano, lo devono a lui: John Rawls, Ronald Dworkin, Michael Walzer, Isaiah Berlin, e molti altri, sono disponibili al lettore italiano anche grazie alla sua capacità di capire che cosa, in filosofia in generale e in filosofia politica in particolare, contasse davvero, chi – per usare una sua espressione – «ci acchiappasse».

È in qualche senso avvenuto, cioè, che la sua prospettiva personale di ricerca, indirizzatasi verso le teorie della giustizia per l’insoddisfazione verso l’hegelo-marxismo nostrano, sia diventata anche una sorta di progetto culturale di ampio respiro, in cui i testi provenienti da Oltremanica o da Oltreoceano hanno operato da grimaldelli, che hanno contribuito a scardinare scolastiche e ribaltato modi di pensare consolidati. Tutto questo non, s’intende, per gettare via il passato, ma per ripensarlo dentro l’urgenza dei problemi dei contemporanei, nel suo caso i problemi filosofico-politici della giustizia sociale, recuperandone la ricchezza ma rinunciando ai loro vicoli ciechi.

Dietro quelle traduzioni, che negli anni Ottanta arrivarono copiose da Feltrinelli, dove a lungo Salvatore Veca è stato presidente della Fondazione, e dal Saggiatore, la casa editrice diretta dal suo grande amico Marco Mondadori, c’era dopotutto la convinzione filosofica che le istanze di giustizia sociale non dovessero essere risolte immaginando una filosofia della storia di successo, come accadeva con le numerose varianti del marxismo in giro per il mondo, che rimandavano a un non meglio precisato futuro la soluzione delle ingiustizie del presente, ma dovessero misurarsi con la fatica di agire per un miglioramento continuo, passo a passo, degli assetti esistenti; e questo, per il filosofo, non poteva avvenire se non attraverso la chiarezza del pensiero e il rigore del lavoro argomentativo, che soli potevano produrre un solido apparato giustificativo a sostegno degli ideali politici.

Questo naturalmente aveva una serie di conseguenze sull’impostazione filosofica generale, ma aveva anche delle ricadute nel dibattito politico italiano, fin quando almeno nei partiti si è dato ascolto agli intellettuali, eventualmente inferocendosi per quel che gli intellettuali facevano o dicevano, specialmente se scattava il sospetto di non conformità all’ortodossia ideologica. E la figura di Salvatore Veca è stata quella di un intellettuale nel senso pieno della parola; che ha cercato negli anni di far ragionare la politica, non pretendendo di sostituirsi a essa, ma fornendo alla politica materiale teorico su cui ruminare per l’azione.

La figura di Salvatore Veca è stata quella di un intellettuale nel senso pieno della parola; che ha cercato negli anni di far ragionare la politica, non pretendendo di sostituirsi a essa, ma fornendo alla politica materiale teorico su cui ruminare per l’azione

Sotto questo profilo, la storia di Salvatore Veca è stata una storia di sinistra, ma alla fine una storia con i suoi chiaroscuri, perché, col tempo, Salvatore Veca – lo spiega bene nel suo Qualcosa di sinistra – si era reso conto che la sinistra nella quale lui era cresciuto era refrattaria a fare i conti con i propri errori e che aver pensato che potesse farlo, virando verso il socialismo liberale, era un eccesso di ottimismo, se non una grande ingenuità. Ma questo non sembrava averlo crucciato più di tanto; infatti, di fondo, Salvatore Veca sapeva guardare al mondo col giusto disincanto e un’appropriata ironia.

Per chi, come me, è stato suo allievo, la storia pubblica di Salvatore Veca, che con Sebastiano Mondadori ha mirabilmente riannodato con le proprie vicende personali nel suo Prova di un autoritratto, si salda naturalmente a ricordi più specifici. Rimarrò, rimarremo, legati ad alcune sue frasi memorabili («Ci sono professori che studiano e professori che telefonano; io studio»), ad alcuni vezzi linguistici (i celebri «vechismi»), al suo rapporto eterodosso con la storia della filosofia («i classici sono templi da saccheggiare, non da venerare»), a quando nei seminari riusciva a spiegare ai relatori la loro relazione, e in un modo più chiaro di quanto non l’avessero esposta i relatori medesimi. E nei giorni che verranno avremo sempre maggior contezza di quanto la disinvolta eleganza del suo pensiero mancherà a noi, a tutti.