Solo per approssimazioni affettuose quanto imprecise è possibile disegnare il contorno di ogni donna e ogni uomo. L’affetto (non il distacco) è indispensabile; l’imprecisione è inevitabile. Non saprei come altrimenti ridurla, nel parlare di Salvatore Veca, che dichiarando il lato del mio accostamento a lui in queste righe. “Salvatore Veca costruttore di istituzioni” può dare un’idea di ciò che sento di voler ricordare, per soffermarmi non certo su un profilo privato, ma su quella che definirei la faccia interna di quella sua esterna: di uomo pubblico.

Certo, sarebbe ragionevole stipulare anche cosa intendo per “costruttore di istituzioni”. Perché, a pensarci un attimo, né il concetto di costruzione né quello di istituzione sono auto-esplicativi. Eppure, chi abbia conosciuto Salvatore Veca intuisce immediatamente come questa qualifica – non accademica e non professionale – di “costruttore di istituzioni” gli si attagliasse perfettamente.

Non è certo un suo profilo privato, ma di quella che definirei la faccia interna della sua esterna, di uomo pubblico

Documentare questa intuizione non sarà difficile per un biografo sistematico. La vita di Veca è stata costellata infatti di momenti e occasioni in cui il suo contributo è stato decisivo nel dare vita o sostenere o trasformare istituzioni. Penso all’impulso dato a imprese umane, di ineguale peso, ma sempre nodali e vitali, come l’Ateneo pavese, il Laboratorio Expo, la Fondazione Balzan, la Feltrinelli, l’Istituto universitario di Studi superiori di Pavia, la Casa della Cultura di Milano, la Fondazione Romagnosi, il Collegio Giasone del Maino, il Campus di Lucca o il Teatro No’hma.

Non voglio tuttavia intraprendere una ricostruzione che, adesso e qui, non sarebbe possibile, se non banalizzando e trascurando troppe cose. Farò invece altro. E cercherò di delineare – certo rapidamente e "penultimamente" – i caratteri della "arte costruttiva" di Salvatore Veca. Ne ho individuati cinque e li propongo per cenni, nella speranza che riecheggino, almeno un po’, la memoria condivisa del maestro, del collega, dell’amico.

Salvatore costruiva coralmente – e “coro” andrebbe pensato secondo l’etimo, che si riferisce alla danza e non al canto. È eloquente, a questo proposito un brano di Prove di autoritratto – il libro scritto da Veca insieme a Sebastiano Mondadori; libro cui sovente ritornerò. Qui, Salvatore chiarisce bene cosa significhi questa metodica costruttiva: “Dare il ritmo senza imporlo a un gruppo di persone di qualità, disegnando traiettorie possibili di idee e cercando coerenze che a volte non ci sono”. Chi abbia progettato con Salvatore una qualche impresa collettiva sa quanto queste parole – riferite, nel libro, a una casa editrice – descrivano, in verità, un protocollo cui il costruttore si atteneva rigorosamente. L’essenza di quel protocollo era – e, di nuovo, le parole sono sue – “una naturale fiducia nel lavoro di gruppo e nella cooperazione”.

Salvatore edificava con cautela anti-sismica. Scrive nel suo autoritratto: “Ho sempre mirato a progettare istituzioni [..] con la piena consapevolezza del carattere incerto e mutevole dell’impresa”. Sì, c’è chi edifica nella convinzione che certi materiali e certe tecniche costruttive possano porre il manufatto al riparo da ogni scossa tellurica. Ma, non è così. Del resto, spesso i sismi non riguardano la crosta terrestre, ma la mente e l’anima degli uomini. Contro sismi di tale natura – posto che davvero li si debba temere – le istituzioni si difendono solo con la flessibilità, la porosità e l’apertura al futuro, al suo svolgersi – proprio come dice Salvatore – “incerto e mutevole”. Nessuno come lui sapeva – e cercava di render gli altri consapevoli – che non esiste processo fondativo o rifondativo che sia un processo chiuso.

Salvatore congegnava con senso del bello. Si ispirava, nel progettare le strutture organizzative e nel ridisegnare le macchine che si trovava a guidare, a una regola di eleganza e sobrietà, che era tutt’uno con un principio di funzionalità. Forse, è un aspetto non facile da precisare qui e da discutere con poche frasi. Tutti però ne avranno avuto percezione, se non altro nell’attenzione con cui Salvatore si applicava a rivisitare gli spazi in cui si trovava ad operare: fossero l’ufficio della presidenza alla Facoltà di Scienze politiche, il suo studio alla Feltrinelli, il rettorato del collegio Giasone del Maino. Questa rivisitazione degli spazi, per farli corrispondere a un progetto più grande di loro, ritengo avesse in fondo a che fare con quella che Salvatore stesso definisce la sua “propensione ai riti di fondazione”.

Salvatore ha costruito istituzioni secondo un’ispirazione unitaria. Gli edifici che ha fondato, ristrutturato, manutenuto appartenevano a un’ideale città, animata da un’interna armonia. Mettendo uno accanto all’altro i fabbricati che popolano quella città, ci si rende agevolmente conto di questa unità di funzione e di senso. È facilissimo infatti ordinare le istituzioni cui Salvatore Veca ha dato il suo apporto in una topografia neo-illuminista di miglioramento del mondo per gli uomini e degli uomini per il mondo, governata insieme da ragione e ragionevole sentimento. E chissà, se questo progetto non fosse misteriosamente in nuce già in Zizzopoli, la città su cui regnava re Zizza e su cui governavano – giacché il re regna, ma non governa – i due fratellini Salvatore e Alberto Veca (ed è di nuovo un ricordo che traggo da Prove di autoritratto).

Salvatore costruiva in libertà. È un aspetto, questo, molto importante e delicato, per un uomo che ha vissuto intensamente l’impegno civile e il vincolo di cittadinanza

Infine, Salvatore costruiva in libertà. È un aspetto, questo, molto importante e delicato, per un uomo che ha vissuto intensamente l’impegno civile e il vincolo di cittadinanza. Il politico, das Politische, ha le sue pretese; e non rinuncia a farle valere soprattutto quando sono nella sua disponibilità le risorse organizzative, autorizzatorie, finanziarie che permettono di costruire istituzioni. Ed è giusto così. Sennonché, il suolo su cui Salvatore si decideva a edificare aveva sempre un sostrato roccioso che ne determinava una precisa morfologia. In Prove di autoritratto Salvatore riconosce come una delle sue vocazioni “la “costruzione / il corsivo è suo / di istituzioni di cultura e di ricerca”. Ma è chiaro ed insistentemente chiarito, in quel libro e altrove, che questa vocazione si colloca solo al secondo posto dietro la chiamata filosofica. E questa, a sua volta, ha una propria pretesa irrinunciabile: “il primo passo della teoria – scrive e ripete Salvatore – è un gesto di autonomia rispetto a qualsiasi potere”. Quella autonomia era il sostrato roccioso di ogni suo edificio.

Sono questi i cinque profili di Salvatore Veca “costruttore di istituzioni” che ho saputo identificare. Mi rimane solo da collocarne un ultimo, indisciplinato, che non ho saputo ridurre a una categoria. Voglio dire che, anche nel costruire istituzioni, Salvatore esercitava quell’inclinazione alla fantasia, al gioco, all’ironia che non l’aveva abbandonato dai tempi di Zizzopoli. Sicché, mentre andiamo tristemente prendendo commiato dalla sua presenza terrena, in realtà quello che a me più spesso viene alla mente è il suo sorriso. Vedo un movimento divertito delle labbra, un luccicare più intenso dello sguardo dietro gli occhialini calati sul naso, come un ridere accompagnato da piccolissimi ammiccamenti del capo, che poi costringono il titolare del sorriso a rincalzare le lenti sulla loro sella, tra le narici.

Con questo, ho davvero terminato il mio ritratto di Veca “costruttore di istituzioni”: un costruttore che edificava con passione, ma senza enfasi, convinto, ma ironico; sempre pronto a prendere le cose “sul serio” (secondo un’espressione che amava e usava moltissimo), a riversarci dentro molta intelligenza e tanto lavoro, come se ognuna di quelle istituzioni costituisse il prototipo, forse addirittura l’inizio, di un mondo sul serio migliore.