«È possibile una nostalgia che rovesci l’ordine nel presente per condurre in un altrove temporale che chiamiamo futuro? Qui ci troviamo dinnanzi a un altro bivio, in cui tutto potrebbe precipitare: siamo di fronte all’idea che il tempo sia finito, il mondo corrotto e ogni futuro impossibile». Così riflette l’antropologo Vito Teti, nel suo contributo sul Sentimento dei luoghi, tra nostalgia e futuro, nel recente volume collettaneo dal titolo ambizioso: Riabitare l’Italia.

A rischio di essere vaghi, di puntare sull’etica delle buone intenzioni, di andare incontro a nuove, sonore delusioni, è proprio da interrogativi come questi che bisogna partire per riannodare i fili della realtà e dei possibili futuri del nostro Paese. Dalla considerazione, sempre di Teti, che «il presente è diventato egemonico» e che «il tempo come principio di speranza sembra essere scomparso dalle nostre discussioni». Dalla circostanza che viviamo in un Paese provato e stanco; reduce da un ventennio prima di forte rallentamento dello sviluppo e di ridimensionamento delle speranze, e poi di crisi conclamata. E lì impantanato: non solo nei numeri dell’economia, del lavoro e degli investimenti, ma anche nel dibattito pubblico, culturale e politico, affogato nei tatticismi della quotidianità, segnato dalla frammentazione e dal rancore, in una lotta continua per le briciole delle risorse economiche e delle posizioni di potere. E dunque incapace dell’unico esercizio davvero utile: quello di riflettere sui possibili futuri partendo da una lettura attenta, intransigente, del presente come sbocco della lunga durata del nostro passato. Incapace di far spazio al progetto in un mare di risentimento; di recuperare quell’ethos del ricostruire, a partire dal quel che c’è e da come è, che ha segnato altri tempi della nostra storia. Un Paese incapace dell’unico esercizio davvero utile: quello di riflettere sui possibili futuri partendo da una lettura attenta, intransigente, del presente come sbocco della lunga durata del nostro passatoUn esercizio tutto politico: pensare sé stessi nel tempo lungo; in un domani possibile, perché basato su una riflessione attenta sull’oggi e sul prima; su ciò che si può fare, su ciò che si può concretamente divenire. Proprio quando manca il futuro è così importante rileggere il passato: non per provarne nostalgia ma per capire chi siamo e da dove veniamo, e quindi dove possiamo andare.

Riabitare l’Italia. Le aree interne tra abbandoni e riconquiste, curato da Antonio De Rossi e pubblicato da Donzelli, è un vero e proprio esercizio politico. Non una collazione di scritti; ma un progetto di un gruppo fortemente interdisciplinare di studiosi: Filippo Barbera e Fabrizio Barca, Giovanni Carrosio e Domenico Cersosimo, De Rossi e Arturo Lanzani, Laura Mascino e Pier Lugi Sacco, oltre allo stesso Carmine Donzelli, editore in quanto animatore e promotore culturale. Di che cosa parliamo? Per che cosa tutti costoro vogliono costruire un progetto proiettato nel futuro? Il tema è quello dell’Italia interna. I luoghi, dalle Alpi alla Sicilia, nei quali vivono 13 milioni di nostri connazionali, in comuni di piccola o piccolissima dimensione: il 52% del totale, e che coprono il 60% della superficie italiana. Un’Italia abbandonata e in abbandono, tanto dagli uomini quanto dalla politica, che merita invece una prospettiva differente: quella di essere riabitata.

Quello delle aree interne è tema ben presente nella storia repubblicana; anzi, sin da prima. Ce lo ricorda Piero Bevilacqua in uno dei contributi del libro: sin dagli 8 volumi pubblicati dall’Istituto nazionale di Economia agraria nel 1932-38 dedicati allo «Spopolamento montano in Italia». Perché è già in quegli anni che si viene «progressivamente sgretolando un assetto secolare», a causa di emigrazione e spopolamento. La storia del secondo Novecento è poi segnata dal proseguire di quelle vicende: nel quarantennio che parte dal 1971 la popolazione italiana cresce del 10% ma si riduce della stessa percentuale nelle aree appenniniche.Il processo di svuotamento delle aree interne del nostro Paese sta arrivando a un punto di non ritorno: lo spopolamento diventa abbandono definitivo della presenza antropica in molti luoghi abitati da secoliPerché tornare a parlarne oggi? Per due grandi motivi. In primo luogo perché il processo di svuotamento delle aree interne del nostro Paese sta arrivando a un punto di non ritorno. Con la violenta transizione demografica italiana, la caduta della fertilità e delle nascite, l’invecchiamento, la realtà e ancor più le proiezioni della nostra popolazione mostrano che lo spopolamento si sta avvitando su se stesso: senza nuovi giovani, l’Italia interna è sempre più la casa di concittadini anziani, senza più ricambio in vista. Come avvertono i demografi (come ha fatto Antonio Golini), quando la popolazione anziana supera un terzo del totale si supera un punto di non ritorno: lo spopolamento diventa abbandono definitivo della presenza antropica in molti luoghi abitati da secoli. Processi cumulativi e in accelerazione, dato che l’invecchiamento alimenta se stesso: con meno bambini e meno insegnanti, con il rimpicciolimento dei mercati locali, con la scomparsa dei servizi, pubblici e privati, vi è ulteriore incentivo alla definitiva emigrazione delle residue fasce di popolazione giovane.

 

[L'articolo completo pubblicato sul "Mulino" n. 1/20, pp. 84-92, è acquistabile qui