Dal 1° gennaio 2024 la sostituzione del reddito di cittadinanza con l’assegno di inclusione, una politica nuovamente categoriale, farà tornare l’Italia l’unico Paese europeo privo di una misura universalistica di contrasto alla povertà. Nel frattempo l’Unione europea sembra andare in direzione esattamente opposta, prestando più che mai attenzione alle politiche di reddito minimo e indicandole come uno strumento fondamentale nel raggiungimento dell’obiettivo strategico di riduzione di 15 milioni di persone a rischio di povertà ed esclusione entro il 2030.

Negli ultimi mesi infatti, a più riprese, le istituzioni europee hanno dedicato centralità all’esigenza di adeguare le misure di reddito minimo europee; prima, nel settembre 2022, la Commissione europea ha proposto una Raccomandazione in tal senso al Consiglio europeo. Poi, questa Raccomandazione è stata adottata (31 gennaio 2023) dal Consiglio stesso e infine, lo scorso marzo, il Parlamento europeo ha approvato questo documento, anche con il contributo del parere del Comitato economico e sociale europeo.

Ma perché queste decisioni rappresentano un momento così significativo e tutto sommato di svolta, nelle indicazioni della Ue in termini di Welfare e cosa prevedono esattamente?

La sostituzione del reddito di cittadinanza con l’assegno di inclusione farà tornare l’Italia a essere l’unico Paese europeo privo di una misura universalistica di contrasto alla povertà

Per rispondere alla prima domanda va ricordato che il primo intervento dell’Ue in materia di reddito minimo è stato la Raccomandazione 92/441 del 1992, con cui il Consiglio europeo proponeva a tutti i Paesi membri di stabilire criteri comuni per garantire risorse economiche sufficienti ai propri cittadini e una serie di principi a cui attenersi per implementare le politiche di reddito minimo necessarie a tale scopo.

Da allora però, l’attenzione della politica europea per il contrasto alla povertà tramite misure di assistenza sociale ha subito per molto tempo un significativo arresto. Solo nel 1999 un report Ue valutava le significative differenze che ancora esistevano tra i Paesi nel convergere rispetto alle indicazioni prese sette anni prima e bisognava addirittura attendere il 2008 per il successivo intervento istituzionale in questa materia: con la Raccomandazione 2008/867 infatti, la Commissione Ue rilanciava il ruolo dei redditi minimi come strumenti di inclusione attiva per le persone escluse dal mercato del lavoro. Già in questo ultimo documento si notava però una sostanziale torsione dell’utilizzo degli strumenti di assistenza sociale, visti sempre più come misure di attivazione dei beneficiari.

Da metà degli anni Novanta in poi, infatti, la modalità di intervento prevalente che l’Unione europea ha indicato per combattere l’esclusione sociale e la povertà è rappresentata da misure di inserimento lavorativo e di attivazione dei beneficiari. Vanno in questo senso ad esempio la Strategia europea dell’occupazione (1997) che prevedeva la attivazione pro-work dei beneficiari di politiche sociali e tutte le scelte politiche della Ue che hanno portato poi alla Strategia di Lisbona, vale a dire il tentativo di costruire un modello sociale europeo capace di coniugare crescita economica, conoscenza, uguali opportunità e capitale umano. In questa fase la lotta alla povertà in sé, intesa come mero sostegno al reddito dei cittadini più indigenti, sembrava abbandonata a favore di una indicazione produttiva del Welfare europeo, probabilmente sotto l’influenza, da un lato delle indicazioni Ocse del “making work pay” (1997), dall’altro della convergenza politica su strategie di investimento sociale, che hanno caratterizzato per almeno un ventennio le scelte di policy del Welfare europeo a partire dalla presidenza olandese dell’Unione, sempre nel 1997.

Ciononostante, nel 2017, quando il Parlamento, il Consiglio e la Commissione europea proclamarono l’adozione dell’European Pillar of Social Rights, tra i venti principi fissati come base del Welfare europeo il quattordicesimo richiamava il fatto che “chiunque fosse sprovvisto di risorse sufficienti ha diritto a un reddito minimo che garantisca dignità in ogni fase della vita e accesso effettivo a beni e servizi. Per coloro che possono lavorare, le misure di reddito minimo dovrebbero essere combinate con incentivi per il reinserimento nel mercato del lavoro”. A questo proposito e nello stesso anno, pur con un colpevole ritardo di quasi un decennio, l’Ue si iniziò a preoccupare concretamente di dare attuazione alla Raccomandazione del 2008 sopra richiamata.

Ma, se fino a qualche anno fa la direzione politica dell’Unione era chiaramente nell’ottica di utilizzare il sostegno al reddito come ammortizzatore attivo per favorire l’inserimento dei più svantaggiati, lo scenario è cambiato in modo significativo nell’ultimo triennio.

Secondo la Commissione Ue, infatti, se “fino al 2020 l’Unione economica è continuata a espandersi, e l’occupazione ha raggiunto il livello più alto e il tasso di occupazione è tornato ai livelli precedenti alla crisi del 2008”, la pandemia Covid 19 ha prodotto uno shock economico che deve spingere l’Unione e gli Stati membri a intensificare il livello di protezione sociale (Proposal for a Council Recommendation On adequate minimum income ensuring active inclusion, settembre 2022).

La crisi pandemica prima e ora la crisi economica legata alla guerra, con il connesso aumento dell’inflazione e il drastico crollo del potere di acquisto per tanti cittadini europei, sembrano dunque aver riportato al centro dell’interesse dell’Unione l’utilizzo di adeguati strumenti di reddito minimo nel contrasto alla povertà e alla esclusione sociale.

Sembra tornato al centro dell’interesse dell’Unione l’utilizzo di adeguati strumenti di reddito minimo nel contrasto alla povertà e alla esclusione sociale

Le conclusioni del Consiglio Ue dell’ottobre 2020 parlano infatti espressamente di "Strengthening Minimum Income Protection to Combat Poverty and Social Exclusion in the Covid 19 Pandemic and Beyond"; allo stesso modo questo genere di strumenti sono individuati come centrali dall’Action Plan dell’European Pillar of Social Rights, per raggiungere l’obiettivo strategico di ridurre di almeno 15 milioni (tra cui 5 milioni di bambini) le persone a rischio di povertà ed esclusione sociale. Ora gli Stati membri sono chiamati a indicare quali politiche concrete intendono adottare per raggiungere questi obiettivi.

A tale proposito, dopo aver richiamato il percorso intrapreso dalle istituzioni Ue, veniamo dunque al secondo punto, vale a dire cosa concretamente prevedono le tre importanti Raccomandazioni votate negli ultimi mesi da Consiglio, Commissione e Parlamento, che indicano una chiara direzione di policy e il tentativo di una convergenza in questo senso tra i vari Paesi europei.

La vera novità di questi documenti è nel richiamo alla adeguatezza che devono avere le politiche di reddito minimo nel contrastare la povertà e l’esclusione sociale; una attenzione che è aumentata a seguito dell’impoverimento dei cittadini europei a causa della pandemia e della crisi economica legata alla guerra. L’adeguatezza economica è considerata in riferimento alla capacità di tali strumenti di allievare la povertà rispetto alla soglia di povertà stessa e al rapporto con i redditi dei lavoratori poveri. Si richiama inoltre la necessità di aumentare la copertura delle misure di reddito minimo, poiché oggi circa il 20 % dei poveri europei non ha i requisiti di accesso a tali politiche e infine la capacità di diminuire il “non take-up” di queste misure, vale a dire l’incapacità di rendere beneficiari di questi strumenti coloro che potenzialmente lo sarebbero, ma che per vari ragioni, tra cui anche lo stigma connesso a misure di assistenza sociale, non presentano domanda.

In conclusione, l’Unione europea con questi tre documenti sembra porre al centro della sua agenda politica e in modo estremamente concreto il contrasto alla povertà con politiche universalistiche per tutti i poveri, proprio nel periodo in cui l’Italia, con la cancellazione del reddito di cittadinanza, intraprende la strada opposta.