Il contrasto tra sindacati e governo, e all’interno della maggioranza, su come uscire da Quota 100 ripropone la discussione sulle anomalie del sistema pensionistico nel Welfare italiano. Alcuni dati essenziali di confronto con gli altri Paesi europei ci permettono di valutare meglio tali.

Quota 100 è stata introdotta in via sperimentale per il triennio 2019-2021 dal governo Lega-M5S. La misura è essenzialmente uno schema di pensionamento anticipato per quei lavoratori che hanno raggiunto 62 anni di età e 38 anni di anzianità contributiva. La riforma ha consentito quindi di anticipare il pensionamento rispetto sia all’età pensionabile, attualmente fissata a 67 anni dalla riforma Fornero, sia al periodo contributivo minimo per la «pensione anticipata» (42 anni e 10 mesi per gli uomini, 41 anni e 10 mesi per le donne), con una penalizzazione relativamente contenuta in termini di importo finale. Il governo Draghi ha deciso di non rifinanziare la misura, aprendo così un’accesa discussione sia con i sindacati, sia con la Lega, che fa parte a tutti gli effetti della attuale maggioranza. La soluzione di compromesso che sembra essere stata trovata in questi giorni è la sostituzione di Quota 100 con Quota 102 per il solo 2022. La misura prevede l'uscita dal mercato del lavoro a 64 anni con 38 anni di contributi. Il governo si è impegnato a consultare dal prossimo gennaio le parti sociali per avviare una riforma organica delle pensioni nel 2023.

 

Un sistema pensionistico ipertrofico e una spesa sociale sbilanciata. Nonostante le riforme di natura (più o meno) restrittiva che si sono susseguite nel corso degli ultimi decenni – dalla riforma Dini alla riforma Fornero – se paragonato agli altri Paesi europei, il nostro sistema pensionistico continua a rimanere ipertrofico. La spesa per pensioni nel 2018 è stata pari al 15,8% del Pil, un valore ben più elevato non solo dei Paesi nordici come Danimarca (12,3%) e Svezia (10,9%) o della rigorosa Germania (11,8%) ma anche dei «cugini mediterranei», Spagna (12,6%) e Portogallo (13,9%). Solo la Grecia ha registrato una spesa, di poco, maggiore (16,1%). Inoltre, in Italia questa spesa assorbe una quota estremamente alta della spesa sociale totale (oltre il 55%), altrove, come in Germania e Danimarca, è inferiore al 40%.

Il nostro sistema pensionistico continua a rimanere ipertrofico: l’Italia ha speso solo lo 0,6% del Pil per i servizi alle famiglie, ma ben il 15,8% per pensioni

Se si analizza il dato disaggregato, l’Italia continua ad essere tra le nazioni che spende maggiormente per il pensionamento anticipato (1,4% del Pil nel 2018 contro lo 0,8% della Spagna, lo 0,6% della Svezia, lo 0,4% della Danimarca, lo 0,3% della Germania). Il risultato è una spesa sociale sbilanciata che predilige la copertura dei vecchi rischi sociali - ovvero quei rischi tipici dell’epoca fordista tradizionalmente coperti tramite misure passive – a scapito dei nuovi – comparsi a seguito del processo di de-industrializzazione e terziarizzazione dell’economia e della modernizzazione della società e che tendono a colpire soprattutto le nuove generazioni. Nel 2017, l’Italia ha speso solo lo 0,6% del Pil per i servizi alle famiglie – in primis, asili nido – ovvero meno della metà delle risorse destinate per finanziare la spesa per le pensioni anticipate! Se comparato agli altri Paesi europei inoltre, il dato è particolarmente deludente: non solo è inferiore ai Paesi scandinavi (2,2% la Svezia) o alla Germania (1,3%), ma anche alla Spagna (0,7). Non stupisce quindi che il tasso di iscrizione dei bambini della fascia 0-2 anni nei servizi della prima infanzia risulti essere – seppur con dei sostanziali miglioramenti rispetto ai decenni precedenti – tra i più bassi tra i Paesi dell’Europa occidentale e con forti differenze territoriali (26,1% contro il 38,2% della Spagna, il 37,7% della Germania e il 46,3% della Svezia).

Una riforma iniqua che ha favorito chi era già privilegiato e trascurato le nuove generazioni. In questo contesto, Quota 100 si è dimostrata essere una riforma sostanzialmente iniqua, privilegiando essenzialmente una categoria specifica di individui – nella stragrande maggioranza lavoratori dipendenti maschi, circa 70% – già coperti dal ben più generoso sistema retributivo – abrogato dalla riforma Dini e successivamente dalla riforma Fornero. Anche se la spesa finale è stata minore di quello preventivata – a causa di un numero minore di domande pervenute – 11,9 miliardi contro i 20 preventivati – il costo è stato alto e, come ha sottolineato Elsa Fornero, ha fallito sul piano occupazionale, dato che c’è stato un solo ingresso per ogni tre uscite. In sostanza la scelta è stata quella di utilizzare le (scarse) risorse disponibili a favore di un gruppo di insiders attraverso una riforma finanziata in deficit il cui costo è stato scaricato sulle nuove generazioni dei lavoratori. Ed è proprio questo gruppo di lavoratori che è stato completamente dimenticato dalle varie riforme – compresa Quota 100 – nonostante abbia un alto rischio di ricevere pensioni molto basse nel futuro – a causa di carriere di lavoro frammentate – e quindi di essere a rischio di povertà durante la vecchiaia.

Quota 100 si è dimostrata essere una riforma sostanzialmente iniqua, privilegiando essenzialmente una categoria specifica di individui già coperti dal ben più generoso sistema retributivo

Le riforme dei Paesi europei: fiscalizzazione e previdenza integrativa. Le nuove generazioni, tuttavia, non sono state sempre trascurate negli altri Paesi europei. L’ondata di riforme che ha caratterizzato tutti i sistemi di Welfare delle democrazie occidentali dagli anni Novanta in poi non ha solo introdotto misure di natura sottrattiva – come l’innalzamento dell’età pensionabile o l’estensione del numero degli anni contributivi per accedere alla pensione di vecchiaia – ma anche di natura espansiva, che hanno ricalibrato i vecchi sistemi pensionistici dell’epoca fordista. Nei Paesi continentali – in primis Francia e Germania, dove le pensioni sono storicamente concepite come assicurazioni sociali e quindi finanziate tramite contributi previdenziali – a partire dagli anni Novanta e sempre più esplicitamente negli anni 2000 si sono manifestate due tendenze generali. Da una parte una (parziale) fiscalizzazione del sistema pensionistico, con l’introduzione di programmi residuali finanziati tramite la fiscalità generale – a favore di quel gruppo di lavoratori (prevalentemente giovani e donne) che non riescono a soddisfare i criteri contributivi per accedere alla pensione di vecchiaia - e con la copertura di periodi di inattività da parte dello Stato. Dall’altra, sono stati fortemente incentivati gli schemi di previdenza integrativa, sia occupazionale che privata.

L’obiettivo è stato quindi doppio: da una parte assicurare anche ai più svantaggiati una «rete di sicurezza» durante la vecchia; dall’altra compensare i tagli nel pilastro pensionistico pubblico con nuovi schemi integrativi che possono così assicurare una pensione soddisfacente senza però gravare sulle finanze pubbliche. In Italia, questa strada è stata intrapresa in maniera molto meno convincente. Seppur ufficialmente presenti nel nostro sistema pensionistico, gli schemi di previdenza integrativa non sono mai decollati, soprattutto quelli di tipo occupazionale (9,2% del totale nel 2017 contro il 24,5% della Francia e il 57% della Germania). Leggermente più alto è il tasso di copertura degli schemi privati (11%), ma pur sempre molto basso se confrontato, ad esempio, con la Germania (33,8%). La causa dello scarso utilizzo dei fondi occupazionali può essere ritrovata nel fatto che questi schemi sono finanziati, su consenso-assenso del lavoratore, dal trattamento di fine rapporto (Tfr). Data la frammentarietà delle carriere lavorative e dall’aumento del precariato, molti lavoratori preferiscono non investire il loro Tfr dato che questo viene percepito come un ulteriore strumento di protezione – insieme all’indennità di disoccupazione, la Naspi – nei (lunghi) periodi di inattività. Dall’altra parte, i lavoratori a bassa qualifica e basso salario non riescono a sostenere il finanziamento di uno schema integrativo privato. Per quanto riguarda la fiscalizzazione del sistema, dei passi avanti sono stati fatti– ad esempio in materia di contributi figurativi versati dallo Stato durante la percezione della Naspi o durante il congedo parentale, così come l’introduzione della Pensione di cittadinanza – ma pur sempre non sufficienti.

Una ricalibratura del Welfare per un mercato del lavoro più equo e dinamico e meno disuguaglianza. C’è inoltre da dire che in molti Paesi europei – i nordici fin dall’era fordista e i continentali dagli anni Novanta – hanno affrontato il problema delle pensioni in una prospettiva non solo puramente difensiva – ovvero rispondendo al problema in essere – ma anche preventiva, agendo direttamente sugli ostacoli ad ottenere una pensione adeguata in futuro. Hanno dunque ricalibrato i loro sistemi di Welfare in un’ottica di investimento sociale, aumentando la spesa per le politiche attive del lavoro, per l’istruzione, per l’innovazione e per le politiche di conciliazione vita-famiglia. In un mercato post-fordista, e nella cosiddetta economia della conoscenza, più alti livelli di istruzione portano a stipendi più alti e carriere più sicure. Tuttavia, vi è anche bisogno di un sistema economico più innovativo che stimoli maggiormente l’incontro tra domanda e offerta. E vi è anche bisogno di un sistema efficiente di servizi all’infanzia che, da una parte aiutano lo sviluppo cognitivo dei bambini, dall’altra incentivano il lavoro femminile e una più equa redistribuzione del lavoro di cura all’interno della famiglia.

Altrove, i sistemi di Welfare sono stati ricalibrati, in un’ottica di investimento sociale, aumentando la spesa per le politiche attive del lavoro, per l’istruzione, per l’innovazione e per le politiche di conciliazione vita-famiglia

Queste politiche sociali «preventive» possono facilmente dialogare con misure “ex-post”. Parte delle risorse risparmiate dall’abolizione di Quota 100 potrebbero essere utilizzate per mettere finalmente mano alla riorganizzazione degli schemi integrativi, incentivando il loro utilizzo – specialmente quelli di natura occupazionale – per le fasce dei lavoratori più giovani. Inoltre, in una ottica di riequilibrio generazionale, in un Paese dove il tasso di laureati è tra i più bassi in Europa e dove la mobilità sociale è ulteriormente rallentata a causa della pandemia, il riscatto degli anni di laurea finanziato dalla fiscalità generale, soprattutto per i redditi più bassi, sarebbe un segno di inversione di rotta.

Come si vede siamo ben lontani da ciò di cui si discute in Italia.